La rivincita dei nerd
«I voti raccolti con la promessa (falsa già nei presupposti) di “abolire la Fornero” sono dunque, a conti fatti, voti estorti con l’inganno»

Non ricordo con precisione quello che scrissi sul governo Monti (2011-2013), perché come tutti quelli che scrivono tanto e probabilmente troppo, oltre a confidare nell’oblio lo pratico in prima persona. E sono troppo pigro per scartabellare (digitalmente) nel mio smodato archivio.
Ricordo però una generica simpatia per l’alto profilo dei suoi componenti, esaltato dal basso profilo del governo uscente e anzi cadente, il Berlusconi IV. E ricordo anche una altrettanto generica disapprovazione per l’idea stessa dei “governi tecnici”, che avevano il torto, sia pure indiretto, di sembrare il disperato tentativo di evitare le elezioni politiche, avvalorando l’ipotesi che “il Palazzo” diffidasse del popolo e non volesse dargli la parola. (Giorgio Napolitano, oggi come allora, mi è sempre sembrato l’estremo opposto del populismo, ovvero l’incarnazione strenua dell’elitarismo. “Sire, il popolo è in tumulto!”. “Lasciate che tumultui, gli passerà”. Il nomignolo di Re Giorgio è uno dei pochi azzeccati nella storia del giornalismo italiano).
Ricordo bene, però, di avere preso le difese della professoressa Elsa Fornero, ministra del Lavoro e delle Politiche sociali di quel governo, in almeno due occasioni. La prima fu quando Fornero venne indicata all’odio popolare dal Salvini, con tanto di “presidio” sotto casa sua (di Fornero), per avere varato l’omonima e celebre riforma delle pensioni. La seconda fu quando uno sgangherato attacco fiorito su qualcuno dei quotidiani bastonatori di destra (con corollario di lettere minatorie) accusò la figlia, Silvia Deaglio, di avvantaggiarsi, per la sua carriera accademica, del ruolo di spicco della madre. Munita, la figlia, di un curriculum di studi eccellente ben prima che la madre diventasse ministra, quell’attacco mi sembrò cretino quanto odioso, e lo scrissi.
Non entro nel merito tecnico della riforma Fornero e del rimaneggiamento odierno del regime pensionistico, è una materia irta di complicazioni e se ne deve parlare con una competenza che non possiedo. Ma il significato politico di quella riforma era evidente anche ai non addetti: un richiamo brusco e perfino addolorato (Fornero pianse nell’annunciare “sacrifici”) a un’evidenza brutale. Se la popolazione invecchia, e dunque deve percepire più a lungo la pensione; e di contro la natalità ristagna o addirittura langue, e sempre meno nuovi lavoratori versano i contributi; diventa inevitabile alzare l’età della pensione, altrimenti i conti non tornano e il welfare cola a picco. Fornero diventò, per il becero populismo di destra e la demagogia facilona di un pezzo (il peggiore) della sinistra, una specie di affamatrice del popolo, essendo, nella sostanza, una studiosa del tutto slegata dalla politica, e dunque libera da clientele da coltivare e da traffici di promesse impossibili da mantenere. Disse, dunque, come stavano le cose. E le cose stavano male. Punto.
Se rivango queste vecchie cose è perché Fornero, proprio ora, sta vivendo la sua clamorosa rivincita, che è poi la rivincita della realtà sulle illusioni, quelle in buona fede e quelle usate per drogare il consenso elettorale. Il governo Meloni, che si regge sulla retorica fanfarona di un’Italia che scoppia di salute, è costituito per almeno un terzo dagli stessi gaglioffi che minacciarono e braccarono Fornero tacciandola di derubare il popolo; ma è costretto a rifare gli stessi conti e ad arrivare a conclusioni quasi identiche. No, non si può fare il contrario di Fornero. Non si può onorare la propaganda, anche se sarebbe comodo farlo: non lo permettono i numeri. Non lo permette la realtà. I voti raccolti con la promessa (falsa già nei presupposti) di “abolire la Fornero” sono dunque, a conti fatti, voti estorti con l’inganno. Il Salvini ha truffato il suo elettorato, ahimè troppo sprovveduto, temo, per rendersene conto; e chiedergliene conto.
Più in generale penso questo, e vi avverto, preventivamente, che lo dirò con spudorato schematismo (nel senso che siete liberi di confutare in mille modi quanto sto per scrivere). Le due classi sociali protagoniste del Novecento hanno chiuso il loro ciclo, possono dirsi sopraffatte dal corso degli eventi e liquidate dalla scena politica: la borghesia e la classe operaia. La classe operaia per l’evidente perdita di centralità nella struttura produttiva (difficile immaginare una Cgil dei robot, o un Quarto Stato dei rider o dei precari). La borghesia perché la sua eredità culturale – le sue librerie domestiche, il suo formalismo bene apparecchiato, la sua fede nelle professioni e nella meritocrazia – non solo è “vecchia”, è proprio disfunzionale al presente. Impiccia. Il nuovo capitalismo può e deve farne tranquillamente a meno, la sua potenza predatoria non ha alcun bisogno di “bei modi”, di un buon linguaggio, di un approccio razionale alla realtà e di una disciplina liberale per regolare i conflitti. Non solamente il mito della rivoluzione proletaria, con la classe operaia che “deve dirigere tutto” (uno dei tanti slogan degli anni Settanta), è una statua abbattuta. Lo è anche il mito della competenza della società borghese, i cui ultimi ruggiti (pre-agonici) furono proprio i governi tecnici, con tutti quei professori, quei loden, quei tailleur.
Non ha perso solo il socialismo, ha perso anche Harvard. Hanno perso i consigli di fabbrica e hanno perso i senati accademici. Chi ha vinto? Sotto il profilo politico basta contare i voti, ha vinto il populismo, perché è moneta facile. Quanto al potere, ha vinto una tecno-oligarchia nera il cui codazzo, probabilmente inconsapevole per ignoranza e insipienza, è al governo anche nel nostro trascurabile Paese.
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Ho bisogno di voi lettori, qualunque età abbiate (meglio però se siete giovani, tra poche righe capirete perché). Devo farvi una domanda. Per me è una domanda importante.
Prologo: vengo da quattro momenti recenti in mezzo al pubblico, la festa di una cooperativa a Ravenna, un incontro con Roberto Alajmo a Erice, una serata al Piccolo Teatro di Milano per il bellissimo Prima del Temporale di e con Umberto Orsini, un pomeriggio alla mostra del Beato Angelico a Firenze, per la quale ogni elogio, ogni espressione di stupefatta ammirazione è al di sotto del dovuto. Età media dei presenti, in quattro città diverse e in quattro occasioni cultural-ricreative differenti: tra i sessanta e i novanta. Vecchi che ascoltano vecchi, se preferite l’eufemismo persone mature che passano il tempo (felicemente) tra di loro. L’avvistamento di persone giovani è consolante quanto raro, per non dire rarissimo. E per quanto sia ben noto che il numero degli italiani giovani è in costante calo (si nasce di meno) e il paese invecchia inesorabilmente, in buona sincronia con il sottoscritto, la domanda che vi faccio è:
dove sono i giovani? come passano il loro tempo?
Guardate: non è per niente una domanda polemica, o stizzita, o rimproverante. È proprio un bisogno: vorrei conoscere, vorrei capire di più. Posto che i “miei” (da boomer) luoghi di socializzazione, di ricreazione e di formazione culturale possono essere liberamente e felicemente ignorati, o bypassati, e rimpiazzati con tutt’altro; e detto che è anche comprensibile che, per esempio, il racconto di vita del novantunenne Umberto Orsini, per quanto ammirevole e commovente per sapienza e ironia, possa sembrare irricevibile da chi niente sa dell’Italia dei Sessanta e dei Settanta; ci saranno sicuramente dei modi e dei luoghi, che a me sfuggono, nei quali “i giovani” vivono esperienze, individuali e collettive, che li fanno sentire una comunità in movimento. Nei quali “i giovani” non sono rare apparizioni, ma maggioranza visibile. Egemonia anagrafica. I concerti e i rave, va bene, e i locali, va bene, ma mi piacerebbe molto uscire dal sociologico e dal generico e ricevere dai miei lettori più giovani qualche specifico racconto di qualcosa di bello e di culturalmente nutriente che io non conosco, non frequento e magari neppure immagino. Qualcosa che mi sono perso, che “viene dopo di me” e dunque mi dà la certezza che la vita continua – anche se non è la mia. Sono qui anche per imparare qualcosa, mica solo per dare lezioncine come facciamo troppo spesso noi boomer. E a proposito di lezioncine: ragazzi, dovunque voi siate andate immediatamente a Firenze a vedere il Beato Angelico, cazzo!
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Sono i giorni più corti dell’anno. Solstizio d’inverno. Prima ancora di Capodanno cominceremo a vedere la luce un paio di minuti più presto ogni mattina, e il buio un poco dopo alla sera. Nell’emisfero settentrionale del pianeta Terra (ma chissà all’Equatore?), proprio nel momento in cui la notte trionfa e il sole sembra un astro sfinito, si festeggia la luce. Le luci di Natale, Santa Lucia, i lumi, le candeline, i ceri e le lanterne che ovunque si accendono, si regalano, si portano in giro. Luce nella notte, stella cometa sopra la capanna, irriducibile presenza della vita, sarebbe poi questo il Natale se non l’avessimo trasformato nella presente baraonda, tale da farci dire, ogni volta: il momento più bello è quando se ne esce e si può finalmente tirare il fiato. Il leggendario zio Attilio, tra le divinità laiche della mia famiglia materna, aborriva ogni forma di festività e di vacanza, le considerava stressanti ben prima che il concetto di stress fosse noto agli umani, e commentava sempre: quanto bisogna annoiarsi, per divertirsi! Frase divenuta giustamente proverbiale in famiglia.
La primavera è ancora lontana ma presto nel bosco fiorirà il pallido elleboro, poi le viole e le primule diranno che l’inverno ha i giorni contati. I primi a tornare saranno i cardellini, le rondini o chi altro? Me lo chiedo ogni anno e ogni anno non so rispondere. Siccome è importante onorare il presente, facciamolo, senza pensare troppo alla primavera. Godiamoci l’oscurità umidiccia e indistinta che grava sul mondo, almeno qui nel selvaggio Nord Ovest, e cerchiamo di volerci bene anche se quello di Natale è un bene ufficiale, di ordinanza, di precetto. Buon Natale, buone stelle sopra la vostra casa, cercate di non mangiare troppo (come raccomandano i dottori nei telegiornali) e soprattutto: in alto i cuori.




