In caso di nebbia
Una newsletter di
In caso di nebbia
Michele Serra
Martedì 4 novembre 2025

In caso di nebbia

«Mi capita spesso di invidiare chi sa poco del mondo, è poco informato, e nella nebbia (metaforica) vive avvolto per tutto l’anno»

(Michele Serra)
(Michele Serra)

Le prime notti fredde, le prime nebbie autunnali mi cambiano l’umore, e non in peggio. Si tende a una vita più domestica e riparata, si cominciano a cucinare i piatti più elaborati tipici dell’inverno, i bolliti, i risotti, i minestroni. I cibi freschi e leggeri dell’estate, tanto quanto i vestiti, lasciano il passo a cose più spesse, più strutturate, più sapide. Ci si copre, ci si rintana, ci si protegge. Si guarda fuori pensando (tal quale l’uomo delle caverne, che in fin dei conti è solo nostro nonno alla ennesima): che fortuna essere al riparo. E al caldo, con il fuoco (e forme più tecnologiche di riscaldamento) che ci custodisce, e noi per questo lo custodiamo. La differenza tra interno ed esterno diventa molto più rilevante rispetto a quando fa caldo e la luce sembra non finire mai. Ogni casa – quando arriva l’inverno – è un focolare che si oppone al buio.

Ogni volta che arriva questo momento dell’anno ripenso a una poesia che amo come poche altre, Grazie, nebbia di W.H. Auden, nella quale l’esterno dal quale proteggersi, rintanandosi in casa, è niente meno che il mondo tutto intero, con il suo carico di dolore e tragedia. “Le tenebre totali diffuse dai giornali/che vomitano in prosa trasandata/fatti violenti e sordidi/che non riusciamo, sciocchi, ad impedire”. Auden, in una casa della campagna inglese con gli amici più cari, vede la nebbia che scende a celare finalmente il mondo, se ne sente difeso e la ringrazia, la nebbia, come in una preghiera.

Mi capita spesso di invidiare chi sa poco del mondo, è poco informato, e nella nebbia (metaforica) vive avvolto per tutto l’anno. Non si sente iscritto al club (spesso infelice, perché frustrato dall’impotenza) che chiamiamo “opinione pubblica” – le persone che sanno quasi tutto, ma non possono farci niente. L’ignaro campa tranquillo in una porzione molto limitata del pianeta: la sua. Sa poco, e tanto meglio per lui, che di tutto il resto non conosce il peso.

Essere informato e fare vita pubblica, a tratti, mi sembra una condanna. Poi passa, mi rinfranco, mi riposo e mi sento di nuovo pronto per uscire allo scoperto. Per scrivere, parlare in televisione, cercare di essere o almeno sembrare autorevole. Ma ci sono momenti nei quali rimpicciolire, rintanarsi, scomparire è qualcosa di più di un conforto: è una vera e propria gioia. Spegnere il computer, mettersi il giubbotto peggiore, quello che ha subìto ogni affronto dal mondo, e uscire un attimo a prendere quattro ciocchi in legnaia, o a controllare che cosa stanno combinando i cani. Rendersi conto che oggi ancora non ti sei pettinato, non ancora guardato allo specchio, e ormai è quasi ora di pranzo. Illuderti che tutto sia lì, una cucina a legna, qualcosa che sobbolle sul fuoco, il vino in cantina, la nebbia fuori che si è impadronita del mondo, gli amici che presto arriveranno.
Eccola tutta intera, Grazie, nebbia di Auden, nella traduzione di Alessandro Gallenzi.

Abituato al clima newyorkese,
conoscendo lo Smog fin troppo bene,
mi ero dimenticato
di Te, la Sua Sorella immacolata,
di ciò che porti ai nostri inverni inglesi:
conoscenze native si risvegliano.

Acerrima nemica della fretta,
spauracchio di aerei e guidatori,
certo Ti maledice ogni volatile,
ma io sono felicissimo,
perché Ti sei convinta a visitare
le campagne incantevoli del Wiltshire
l’intera settimana di Natale,
e nessuno può correre,
nel mio cosmo ridotto ad una villa antica
e a quattro Monadi legate da amicizia:
Io, Sonia, Jimmy e Tania.

Fuori un silenzio informe:
persino quegli uccelli spinti a stare
dal loro sangue caldo
qui intorno tutto l’anno,
come il bottaccio e il merlo,
da Te allettati frenano
il loro verso allegro,
nessun gallo si azzarda a strepitare,
e le cime degli alberi, visibili
appena, non stormiscono ma restano
immobili e condensano efficienti
in gocce esatte la Tua umidità.

Dentro, spazi accoglienti ben precisi
rendono confortevole
la lettura e il ricordo, i cruciverba,
le affinità, le risa:
ristorati da sapide cenette
e allietati dal vino,
sediamo lieti in cerchio,
ignari di noi stessi ma solerti
nei confronti degli altri,
cercando quanto più di approfittarne,
perché ben presto occorrerà rientrare,
finiti questi giorni di clemenza,
nel mondo del denaro e del lavoro,
dove si è attenti ad ogni punto e virgola.

Nessun sole d’estate potrà mai dissolvere
le Tenebre totali diffuse dai Giornali,
che vomitano in prosa trasandata
fatti violenti e sordidi
che non riusciamo, sciocchi, ad impedire:
la terra è un brutto posto,
eppure, per quest’attimo speciale,
così tranquillo ma così festoso,
ti rendo Grazie: Grazie, Grazie, Nebbia.

A differenza di Auden, ho la fortuna e il privilegio di avere allungato i miei “giorni di clemenza” per la gran parte dell’anno, vivendo, come forse vi ho già detto anche troppe volte, sopra un crinale dell’Appennino, di fronte a un grande bosco; e attorno ho campi aperti e scoscesi sui quali corrono i caprioli e le lepri (nei fossi l’istrice). Lavoro anche da qui, ovviamente, e certi giorni, sprofondato nel computer, lavoro tanto da non accorgermi nemmeno dove sono. Fino a quassù, senza scampo, salgono dalla pianura quei “fatti violenti e sordidi” sui quali sono tenuto a farmi un’opinione. Me la farò, è il mio lavoro, direi anche il mio dovere: mi leggete in tanti (grazie, grazie lettore!). Ma se di solito Ok Boomer! comincia con un argomento politico di attualità, questa volta la nebbia ha preso il sopravvento e si è presa il suo spazio. Forse dovrei guardare meno dalla finestra, quando scrivo.

*****

Nella piazza centrale di Lodi, che dispone di uno degli acciottolati più estesi e belli che io abbia mai visto, consumato dai passi di molte generazioni, sabato mattina c’era un sacco di gente. Si presentava il libro dell’ex sindaco Simone Uggetti, portato a San Vittore quasi dieci anni fa e poi assolto in via definitiva da ogni imputazione. Storia purtroppo non infrequente di cattiva giustizia, atti amministrativi ritenuti illegittimi (anche se nelle tasche dell’indagato non è finito un euro), un’inchiesta frettolosa, un arresto rude e insensato, gli avversari politici che infieriscono, qualche giornale manettaro che ci sguazza e quando alla fine, dopo anni di attesa, se ne esce assolti, la vita è spesso rovinata e la cicatrice rimane profonda.

Ero presente con la coautrice del libro, Arianna Ravelli, e con Simone Uggetti, che mi è sembrato al tempo stesso felice e ferito. Ed è stato bello partecipare a una sorta di rito cittadino di guarigione: proprio davanti al municipio e al Duomo, nel luogo dove la città è più città, si usciva da una condizione patologica di sospensione, di incomprensione, di sospetto, di solitudine, amicizie appese a una parola detta o non detta, vite interrotte, parole giuste che rimangono in gola e parole sbagliate che fanno del male. Sono situazioni difficili anche solo da immaginare per chi non ci cade dentro, la galera da innocente, la voglia disperata di difendersi, di parlare, di spiegare i fatti, di negare le accuse, e i tempi processuali che ti ricacciano la voce in gola: devi aspettare, tutti parlano di te ma tu puoi parlare solo con i tuoi avvocati.

(Breve, necessaria parentesi. La mia opinione è che la cosiddetta riforma della magistratura imposta dal governo, con zero dibattito e zero coinvolgimento degli interessati, non sfiori neppure i due principali nodi che strozzano il percorso della giustizia. Che sono l’abuso insopportabile della carcerazione preventiva e i tempi interminabili dei processi; con gli imputati che devono aspettare anche parecchi anni per far valere finalmente davanti a un giudice terzo la loro versione dei fatti. Mi sono fatto l’idea – leggendo alcune carte processuali, ovvero i rinvii a giudizio – che ci sia un problema di preparazione culturale di alcuni tra gli inquirenti. E non vedo come e perché la separazione delle carriere potrebbe migliorare la situazione. Infine: che esista una malsana promiscuità tra magistratura inquirente e media è fuori di dubbio, e mi deprime il fatto che nei media ci sia una rimozione quasi totale del problema. In questo senso i giornalisti (intesi come categoria, che poi le persone sono molto diverse l’una dall’altra) si comportano da corporazione, non da servizio pubblico. Sarebbe bello che, in tutta autonomia, i media varassero una auto-riforma della maniera con la quale si occupano di arresti, di processi e di galera. Fine della breve parentesi).

Simone Uggetti si è rifatto una vita fuori dalla politica, è un uomo forte e ha avuto attorno a sé una famiglia larga e protettiva. Ma quando parla della sua storia ancora gli trema la voce. Il libro si chiama Storia di un sindaco da San Vittore all’assoluzione. Uggetti ha voluto che si leggesse in piazza l’Amaca che ho scritto, sulla Repubblica, due giorni dopo il suo arresto, l’otto di maggio del 2016. È questa:

“Se uno psicanalista mi contestasse un reato gli farei presente che non è quello il suo compito, né il suo mestiere; allo stesso modo se un giudice inquirente mi contestasse una “personalità negativa”, gli farei notare che il suo dovere è accertare i reati, non emettere giudizi sulla mia personalità (la cui “negatività”, all’occorrenza, sarà materia dei periti di parte; o dei filosofi della morale; o dei moralisti tout court ).
È con qualche sconcerto, dunque, che nelle carte inquirenti sul sindaco di Lodi, oltre al materiale che riguarda strettamente il reato che gli viene imputato, si legge che “la personalità negativa dei due imputati porta a ritenere… che gli stessi abbiano potuto gestire la cosa pubblica con modalità illecite”. La “personalità negativa”, tranne che si stia parlando di Hannibal the Cannibal o di Anders Breivik, non solo non è una prova a carico; è un giudizio non richiesto e del tutto fuori luogo, che mette a repentaglio proprio quella “autonomia della magistratura” per la quale in tanti trepidiamo. I primi tutori della propria autonomia devono essere i magistrati, per esempio evitando interviste televisive di parecchi minuti nelle quali illustrano (molto positivamente, si capisce) il proprio operato, e per esempio ricordandosi che esistono il diritto penale e il diritto civile, non ancora il diritto morale”.

*****

Le considerazioni sulla natura e sul clima, che in genere chiudono questa newsletter, questa volta le ho già fatte all’inizio. Ieri sera sono “sceso in città” per andare a Che tempo che fa, stamattina (lunedì) mi sono svegliato a Milano e anche la città – ma lo sapete bene – ha i suoi grandi vantaggi: andare a fare la spesa a piedi, a un isolato da casa mia, in uno di quei supermercati fighetti molto bio e molto milanesi, è decisamente comodo, oltre che spassoso (ci sono cibi, a Milano, che noi rurali osserviamo con sbalordimento). Il cavolo nero non mi serve: nell’orto ne ho una decina, alti e belli come pastori masai, quasi pronti da raccogliere.

In città c’è un sacco di gente. Non ci avevo mai fatto caso, quando vivevo in città. Da quando abito prevalentemente in campagna la folla anonima in giro per le vie, nei negozi, nei locali di ritrovo, mi sorprende e un poco mi elettrizza. È una sorpresa piacevole: la folla è un poco come la nebbia, un sipario indistinto, riposante, che ti evita di concentrarti troppo sui particolari. La folla è distraente, ti ci immergi, ci scompari dentro. Da quel sipario, adesso che vado a fare la spesa, potrebbe anche spuntare un amico con il quale prendere un caffè. In alto i cuori.