C’è molto da fare
Una newsletter di
C’è molto da fare
Michele Serra
Martedì 9 settembre 2025

C’è molto da fare

«Alla fine è il lavoro che crea spessore, crea sguardo, costruisce piano piano l’edificio della conoscenza. E anche i fronzoli e le bollicine, dopotutto, richiedono lavoro»

Giorgio Armani, fine degli anni Settanta (David Lees/Corbis/VCG via Getty Images)
Giorgio Armani, fine degli anni Settanta (David Lees/Corbis/VCG via Getty Images)

La moda (e soprattutto la Milano della moda) è stata uno dei bersagli preferiti di Cuore, il settimanale satirico che feci, con un manipolo di valenti autori e redattori, tra la fine degli Ottanta e la metà dei Novanta. Eravamo giovani e allegri e ditemi voi se non faceva ridere il fiorire di catenoni, borchie e pellami dello stilismo meno cosciente (per intenderci, meno cosciente di quanto burino possa essere un giubbotto borchiato, o una mutanda d’autore che sbuca da un paio di brache a cacarella); e ditemi se non facevano ridere anche tutto il frou frou e tutto lo chichi, le svenevolezze da sfilata (si baciavano tantissimo tutte e tutti). Facevano ridere, e facevano anche pensare: primi, sinistri bagliori della decadenza occidentale?

“Lo stilismo malattia senile del capitalismo”, scrissi sull’Unità dopo avere assistito a una sovreccitata “festa della moda” in piazza Duomo. Eravamo, noi trentenni di sinistra di allora, molto poco interessati all’abbigliamento, eravamo casual e grunge prima che esistessero il casual e il grunge. Jeans, magliette e maglioni, camicie come capitava, giacche militari usate, ai piedi scarpe da tennis (molto pre-sneakers) o le Clarks o scarpe purché informi. I golf di Benetton come unica concessione alla galoppante avanzata dei marchi, che allora nessuno chiamava ancora brand. Coltivavamo una specie di snobismo anti-griffe, una ineleganza tenacemente perseguita che magari, per puro caso, poteva diventare elegante. (Esistono, per esempio, fotografie di Guccini, ai suoi primi trionfi dei Settanta, che sono ottima testimonianza di quel genere di invidiabile noncuranza). I sanbabilini prima, i paninari poi, per mettere in chiaro che la loro tribù considerava disgustosa la nostra (e viceversa), erano tutti in tiro, attillati e firmatissimi.

Ho ancora nitido il ricordo, decisamente esilarante, di quando, giovane redattore della pagina spettacoli dell’Unità, andai alla Stazione Centrale a prendere Edoardo Sanguineti, che arrivava dalla sua Genova per una prima teatrale. Era uno dei poeti italiani più importanti, il suo prestigio intellettuale metteva molta soggezione a un mozzo appena salito a bordo, quale ero. Avevo, a parte i jeans d’ordinanza, uno di quei maglioni peruviani urticanti che oggi sarebbero messi al bando come armi improprie, e per completare il quadro un paio di zoccoli svedesi, che allora furoreggiavano. Sanguineti, con il classico completo grigio (o marrone) dei comunisti del lungo dopoguerra italiano, fieramente liso, mi guardò inorridito. Prima mi chiese se ero davvero io quel Serra che conosceva per telefono, e gli era parsa, fino a lì, una persona presentabile. Poi mi fece promettere che se lo avessi accompagnato a teatro mi sarei cambiato («non possiedi un paio di scarpe?»), cosa che feci migliorando però di pochissimo il mio look.

Il tempo poi rimescola le carte. I maglioni peruviani mi sembrano ciò che erano: ridicoli almeno quanto i giubbotti borchiati. E la Milano della moda e del design, che ai tempi mi sembrava tutta fronzoli e bollicine, ha via via smentito il grosso dei miei pregiudizi – anche se mi tengo stretta una punta di fastidio per la querula frenesia degli “eventi” nei localini e localoni, strade intasate e malori tra gli addetti per la troppa emozione, e si tratta della presentazione di un comodino o di un bottone.

Alla fine è il lavoro (anche il mio) che crea spessore, crea sguardo, costruisce piano piano l’edificio della conoscenza. E anche i fronzoli e le bollicine, dopotutto, richiedono lavoro. Ho poi conosciuto designer che ragionavano come operai, in botteghe incasinate, trucioli e ferraglia ai piedi dei computer. Febbrili e mai contenti, sempre in cerca della curvatura giusta e della finitura migliore. Ho chiacchierato e bevuto del buon rosso con Tai Missoni, persona semplice e splendida, e sono diventato amico di Antonio Marras, disegnatore febbrile, accumulatore e ordinatore di eserciti di oggetti: nel suo spazio milanese ho potuto capire quanto arte e moda si parlino e si scambino opinioni.
Certo, non sono più il mozzo che accompagnava Sanguineti al Piccolo, le certezze professionali e la sicurezza economica smussano parecchi angoli, del mio moralismo giovanile serbo un ricordo rispettoso, ma non lo rimpiango. Ma non è questo, il tema. Il tema è che il saluto di Giorgio Armani al mondo, “io sono il mio lavoro”, mi tocca davvero il cuore. Mi inchioda a quello che penso – anche se penso pure altre cose: ma la gioia e la potenza del lavoro, se è un lavoro che ti piace, che costruisce qualcosa, è un bene impagabile, per l’individuo e per la comunità in cui vive.

So che è un concetto profondamente boomer, mutuato dagli italiani usciti dalla guerra come Armani; ne abbiamo molto discusso, in questa newsletter, e molti trentenni e ventenni avevano da ridire, su questo culto del fare come stella polare, e quasi come senso della vita. E mi hanno spiegato le loro ottime ragioni per diffidarne. Però la Milano in fila, silenziosa e rispettosa, composta e pensosa, davanti al feretro e per molti aspetti davanti a se stessa, non era certo una città di soli anziani; e al di là del colpo d’occhio anagrafico, molto vario, non era una città che rimpiangeva qualcosa, era una città che teneva fermo il punto, in tempi complicati, in attesa del giorno dopo. C’è una solidità, nella morte di Armani, che non lascia il tempo di pensare al vuoto. C’è troppo da fare, chissà se riusciremo a farlo bene. Fronzoli e bollicine compresi.

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Due lettori mi hanno scritto per segnalarmi (con motivata severità) che nell’elenco dei cantautori italiani dei quali conosco il repertorio quasi a memoria, da me stilato un paio di settimane fa, mancava Lucio Dalla. Omissione grave e inspiegabile. Per rimediare ripubblico, tra le diverse cose che ho scritto su di lui, la mia Amaca del 4 marzo 2017. Cinque anni dopo la sua morte Bologna gli aveva reso omaggio con una capillare immersione nella sua musica. La città intera cantava Dalla, e fu una cosa bellissima.

“Bologna, per Lucio Dalla, era la madre. Una città-corpo. ‘Una famiglia vera e propria non ce l’ho/ ma la mia casa è Piazza Grande’. La abitava come un grande grembo di pietra, stava a un passo da piazza Maggiore, a due dalla ‘sua’ chiesa che era ed è San Domenico, a tre da qualunque caffè e qualunque portico dove incontrare qualcuno dei tanti che incontrava. Difficile dire una simbiosi altrettanto forte tra una città italiana e un suo artista. Forse Pasolini e Roma, ma non ci era nato. Forse De André e Genova, ma se ne era andato.
In questi giorni la madre rinasce dal figlio. Non solo i teatri, le scuole, i taxi, ma anche i muri e le piazze cantano le sue canzoni. Hanno la sua gola vibrante e le sue orecchie attentissime ai suoni del mondo. Grazie all’allestimento sonoro di un artista tedesco Bologna è diventata la voce di Lucio, e ogni bolognese è la sua orchestra. La tecnologia, una volta tanto, risplende di umanità. Non si capisce bene se è la sua nascita (4 marzo) che si festeggia, o la sua morte (primo marzo) che si commemora. Forse tutto insieme, un grande equivoco che gli sarebbe piaciuto, una sospensione del tempo, un gioco di strada alla portata di chiunque, del senzatetto e del professorone, della ragazzina e del pensionato. Lucio c’è, viva Lucio”.

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Piccolo dibattito tra i lettori. Alessandro aveva scritto: l’idea di vacanza non mi appartiene, sono un nomade digitale e vivo viaggiando in tanti Paesi, gli italiani dovrebbero darsi una mossa. A Serena non era piaciuto il concetto, aveva risposto polemicamente: che c’è di male nella settimana in Romagna? E poi come si fa a conoscere un Paese assaggiandolo di sfuggita? Non è turismo compulsivo per collezionare selfie? Neocolonialismo? Alessandro chiede il diritto di replica, glielo concedo volentieri anche se ho dovuto più che dimezzare la sua mail fluviale.

“Sto via dall’Italia dai 3 ai 4 mesi ogni anno. È un tempo sufficiente a visitare alcuni paesi, conoscerne le persone e approfondirne la storia? Non lo so, probabilmente no, ma non è che abbia aspirazioni da antropologo, etnologo o corrispondente dall’estero. Sono semplicemente un viaggiatore indipendente e curioso, che si sposta coi mezzi che trova, che sta alla larga dai tour organizzati dalle compagnie europee, dagli hotel con le stelle o dai resort stupendi, preferendo spesso guesthouse locali molto più economiche e sinceramente meno accattivanti. In questi 3-4 mesi trovo comunque sufficienti spunti di conoscenza e di riflessione. Ma non è del resto vero che molti giornalisti ci raccontano un evento avendolo visto e vissuto anche per una o due settimane soltanto? Per non volgere troppo lontano lo sguardo, lo stesso direttore del Post è a ragione considerato “esperto di cose americane”, ma non mi risulta che risieda da anni negli Stati Uniti. Si può approfondire quanto si è visitato anche dopo, attingendo a fonti online e offline: chi è appassionato del mondo ormai ha molte opzioni per farsene un’idea personale.
Un esempio proprio a proposito del ‘neocolonialismo’ citato da Serena. Visitando nel corso degli anni diversi paesi dell’Africa subsahariana, ho scoperto, senza ricorrere a libri di geopolitica, che la presenza della Cina è diffusa e capillare, molto più di quanto immaginiamo. Gli imprenditori cinesi hanno ormai messo le mani sull’intero continente africano. Per non parlare dei paesi del Sud Est asiatico e dell’Asia Centrale! Si guarda spesso al passato coloniale degli occidentali, ma non sono troppo sicuro che incida ancora sulle condizioni attuali di alcuni stati molto di più del colonialismo moderno, della corruzione intrinseca (sperimentata a mie spese) e dei conflitti locali.
Sto per terminare un mese in giro fra Benin e Togo, posti molto poco visitati e a volte anche un po’ ‘ostili’ nei riguardi di una persona dalla pelle bianca che se ne va a spasso in luoghi insoliti. Altri anni sono stato in Uganda, Ruanda, Tanzania, Malawi, Senegal, Gambia, Congo, Gabon, etc. Nei villaggi molto spesso non c’è acqua corrente, non ci sono fognature, non tutti hanno l’elettricità, o perché banalmente non ci sono ancora infrastrutture oppure perché non tutti si possono permettere di pagare per l’allaccio ai tralicci o di comprare pannelli solari. Ebbene, in Benin sono riuscito a fare due call di lavoro da un villaggio di 40.000 pescatori che vivono su palafitte costruite sul lago (Ganviè). E questo grazie a una connessione 4G stabile e molto utilizzata dai locali, sicuramente molto più di altri servizi che noi ‘evoluti’ riteniamo fondamentali. In numerosi paesi in via di sviluppo o totalmente non sviluppati è possibile prenotare via app un taxi (moto, tuk tuk, auto di varie categorie) e pagare con cache o con carta, da anni e anche nei villaggi! Sto pensando a come siamo messi in Italia… Detto ciò non c’è nulla di male ad ammassarsi tutti gli anni a Rimini, Gallipoli ed Alghero (o Stati Uniti, Thailandia, Sharm el Sheikh e Maldive per i più esotici), però una volta ogni tanto suggerisco di cambiare meta. Vedo sempre pochi italiani e penso che abbiamo bisogno di conoscere il mondo visitandolo”.
Alessandro

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Questa settimana lascio le Zanzare in sospeso, verranno buone la prossima. La convalescenza per il mio incidente in Vespa va per le lunghe e niente stanca più dell’inedia. Lunga domenica. Però mi sono goduto la vittoria mondiale delle ragazze del volley, compresa la scellerata colonna sonora del Palasport di Bangkok, discomusic a palla mentre le ragazze si giocavano il titolo, la voce dei telecronisti quasi coperta, a tratti, dall’umpa-umpa e da motivetti allegri. Ho pensato, all’inizio, che fosse un’interferenza, purtroppo era una scelta degli organizzatori. L’effetto era insensato.
Attendo, come molti, notizie della Flotilla, entro qualche giorno sapremo come va a finire questa sfida micidiale, molto coinvolgente, tra l’intelligenza disarmata degli “invasori” via mare e la stupidità armata di chi li aspetta come nemici. Sì, stupidità, perché se davvero qualcuno crede che i confini del proprio Paese siano stati disegnati da Dio più di tremila anni fa, e usa la Bibbia come mappa catastale, alla fin fine è prima di tutto uno stupido. Nessuno è più stupido, rispetto alla magnificenza inafferrabile e misteriosa del mondo, del fanatico religioso. Se Dio esistesse (un dio qualunque, anche minuscolo) la sua folgore incenerirebbe per primi i fanatici religiosi: non riuscirebbero a fare un passo fuori di casa senza rimanerci secchi. Purtroppo Dio – se esiste – ha deciso, fin dalla notte dei tempi, per il non interventismo. Dobbiamo arrangiarci da soli. Comunque e sempre: in alto i cuori.