Scomparire nella società connessa

C’è una grammatica della distanza. Riguarda in special modo le nostre relazioni con la musica, la letteratura, la poesia, l’arte in genere.

La distanza fra gli artisti e noi segue in genere due grandi percorsi. Il primo è – evidentemente – quello legato alla morte: l’artista a un certo punto muore e lascia la sua opera a testimonianza del suo passaggio. La nostra relazione con lui a quel punto diventa (o nasce fin dall’inizio nel caso degli artisti a noi non contemporanei) esclusivamente documentale. Mozart è la sonata k545.

La seconda modalità con cui la distanza regola le nostre relazioni con il talento artistico è la negazione. A un certo punto della sua carriera, o talvolta fin da subito, l’artista si nega a noi, intesta alla sua opera ed esclusivamente a quella, il suo rapporto con il mondo intorno. Lui c’è, non è morto, ma non vuole sapere nulla di noi. Non direttamente.

Morte e negazione sono enormemente aumentate di importanza dentro la società connessa.

Chiunque abbia osservato cosa accade su Internet all’annuncio della morte di David Bowie o a quella di Prince (molto più il primo del secondo per ragioni interessanti) avrà visto un flusso gigantesco e mondiale di ricordi e cordoglio, di condivisioni ed impressioni. Un diluvio sentimentale sconosciuto alle nostre strutture sociali precedenti, con sue proprie caratteristiche (la ripetitività, l’emulazione, l’esplosione virale), molte delle quali non sappiamo ancora nemmeno riconoscere.

Invece la negazione dell’artista vivente che rifiuta di essere partecipe della conversazione che lo riguarda è perfino più interessante. Intanto è una specie di richiamo alla serietà: obbliga ad indagare in profondità il senso del suo lavoro. Io – per te – sono le mie opere, tutto il resto non deve interessarti.

Da Pynchon a Salinger, da Battisti a Mina (per usare esempi italiani) l’artista che non si mostra, che non concede interviste, che coltiva o gioca con il proprio anonimato (pensate ad Elena Ferrante) è l’esatto totem ribaltato della società dove tutto è notizia, dove il consumo culturale è rapidissimo e onnivoro, dove “questo-lo-abbiamo-visto-avanti-un-altro”.

C’è qualcosa di respingente nella società digitale alle prese con l’arte e il talento: il borborigmo di un’eterna digestione che per 24 ore al giorno processa tutto e trasforma tutto, alto e basso, inedito e vecchissimo, a sminuzzare un’enorme poltiglia culturale, il pastone che Internet riversa ogni giorno sui nostri schermi: non è strano che alcuni artisti intendano sottrarsi ad un simile flusso.

Tutti sappiamo che una volta risolto il problema della quantità artistica sarà inevitabile occuparsi della sua selezione. Molti però oggi pensano, e non a torto, che nella preistoria digitale nella quale siamo immersi, questo non sia ancora accaduto se non per un numero molto limitato di utilizzatori avanzati. E che anzi molto spesso gli algoritmi, i mercanti e la (nostra) psiche, favoriscano l’esatto contrario.

Gli editori vedono i social network come un’occasione, le piattaforme digitali tentano gli artisti con la loro offerta di grandi volumi per piccoli prezzi (che spesso si trasforma in piccoli prezzi e basta): alla distanza intellettuale dell’artista che desidera far parlare il proprio lavoro e solo quello, si somma oggi un’ulteriore richiesta di scollegarsi da un sistema che è intrinsecamente percepito come inadatto al talento. Perché Internet, a una singola imperdibile perla, saprà subito affiancarne una simile, più nuova, inedita, famosissima o appena emersa. E sarà lì, senza sforzi e per tutti, ad un link di distanza. Alla fine magari è la gelosia il motore del mondo.

Ma se la morte è ineluttabile e la distanza artistica in vita è una semplice scelta personale di chi se lo può permettere (la maggioranza degli artisti cerca l’esatto contrario, un refolo di visibilità), tutto quello che è già accaduto, ciò che a torto o a ragione è stato accettato e condiviso, non può e non dovrebbe essere cancellato. Così la band inglese dei Radiohead che ieri ha improvvisamente azzerato la propria presenza su Facebook e Twitter, per ragioni loro che forse scopriremo prossimamente, non ha solo esercitato un proprio diritto ma ha anche tirato un rigo di penna sopra pezzi di presenza in rete di milioni di loro fans.

Sarà un gesto simbolico di cui forse sapremo apprezzare il messaggio appena ci verrà spiegato, sarà magari una scelta adatta ai tempi a sottolineare la caducità delle nostre relazioni di rete, oppure – perché no – un’accusa lucida e brutale di cosa sia diventato il talento ai tempi di Internet. Ma si tratta di una scelta che spezza fili che non erano nella disponibilità di Thom Yorke e soci. Pezzi della vita di qualcun altro che i Radiohead hanno scelto di cancellare. E questo è interessante, inedito, un po’ stupido e non senza conseguenze.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020