Il giornalismo di Pippo Fava

Sabato a Palazzolo Acreide, comune montano a qualche decina di chilometri da casa mia, consegnavano il premio giornalistico Giuseppe Fava.
L’ha vinto una ragazza di 23 anni che si chiama Ester Castano, per i suoi articoli sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta dentro al comune di Sedriano, che è stato il primo comune lombardo sciolto per mafia.
Ester Castano vive a Milano, ma ha la mamma di Cassibile.
Pippo Fava invece era di Palazzolo, però io non lo sapevo.
Per me, siccome parlava catanese, era catanese.
In effetti parlare catanese non significa niente, perché all’accento catanese non può resistere nessuno: chi si trasferisce a Catania prima o poi parla catanese, cioè con le frasi che sembrano domande anche quando non sono domande, la cantilena in crescendo e le doppie R che diventano una sola.
A Pippo Fava quindi più o meno era successa la stessa cosa che poi è successa anche ai miei amici: intorno ai vent’anni se n’era andato a Catania per fare giurisprudenza, era rimasto a lavorare là e aveva preso l’accento.
Ma questo l’ho pensato oggi.
Quando fu ucciso, nel 1983, io avevo dieci anni, giocavo a Centipede con l’Atari, e di Pippo Fava, de I Siciliani, e anche degli accenti siculorientali non ne sapevo niente.
L’unica cosa che sapevo io era che quando entravamo in macchina a Catania, mio padre alzava tutti finestrini e metteva le sicure nelle portiere.
Non lo faceva solo mio padre.
Ogni tanto a Catania ci andavo pure con la squadra di minibasket (poche volte, perché eravamo scarsi e non superavamo mai la fase provinciale), e pure l’allenatore che ci accompagnava col pulmino, prima di superare gli archi di via Dusmet, ci diceva: avanti ragazzi, alzate i finestrini e mettete la sicura.
Nella Catania primi anni ottanta, gli adulti di Siracusa, la cosiddetta provincia babba, temevano più che altro scippi, furti con destrezza, borseggi, rapine, truffe: tutta quella micro criminalità che da noi per fortuna era poco diffusa.
Oltre a quelli sui finestrini e le sicure, c’erano tanti altri mi raccomando quando andavi a Catania: per esempio certe zone del centro storico si dovevano evitare, meglio fare il giro largo, parcheggiare solo in alcune strade molto frequentate, arrivare al massimo fino alla Rinascente di via Etnea e poi tornare a casa. Al sicuro. A Siracusa.
A consigliarcelo erano spesso quei siracusani che a un certo punto si erano trasferiti a Catania e avevano preso l’accento, e se non lo sapevano loro, che parlavano pure il catanese, di chi ci dovevamo fidare noi?
Comunque, Catania e Siracusa erano fondamentalmente città molto simili, accomunate dallo stesso problema.
Stando a mio padre e al mio allenatore di minibasket il problema di Siracusa, di Catania e di tutte le città in generale era la gente.
La cosa dei finestrini e delle sicure veniva spesso accompagnata da frasi come occhio che la gente è furba, oppure attenzione che non lo sai mai cosa può fare la gente, vedi che la gente è capace di tuttonon si sa mai che gente incontri.
Quelle più ricorrenti in assoluto, però, erano generiche espressioni di allarme rispetto alla quantità di gente presente in un dato luogo: maria santissima ma che è tutta ‘sta gente? Oppure, come a commentare uno scampato pericolo: la gente che c’era non te la puoi neanche immaginare.
Io avevo capito questo: che Catania era senza dubbio molto più grande di Siracusa, e quindi c’era molta più gente, e dunque era molto più pericolosa.
A Catania c’era gente ovunque, troppa gente, mezzo milione di gente, le strade straripavano di gente e se non chiudevi bene il finestrino e non mettevi la sicura, la gente ti poteva esondare dentro la macchina in un secondo.
Quindi insomma, bisognava difendersi con più stratagemmi, issare i ponti levatoi, serrare le porte. Perché rispetto a Siracusa la gente di Catania non era solo di più, era anche più sperta, cioè molto più attiva, intraprendente e pure un poco spaccona: gente che anziché stare con le mani in mano come i babbi siracusani, s’industriava per fottere il primo che si scordava di alzare i finestrini e mettere la sicura.

Pippo Fava era arrivato a Catania da Palazzolo nel 1943.
La Catania di quarant’anni dopo, quella dell’ottantaquattro, quella in cui fu trucidato, cioè quella che mi ricordo vagamente io, forse la poteva raccontare bene solo uno che era nato a Palazzolo, e che l’accento l’aveva preso a diciott’anni. Uno che un giorno aveva cominciato a guardarla da un finestrino e non aveva più smesso per trent’anni, fino a quando di guardarla ne aveva fatto un mestiere, fino a scoprire che a forza di guardarla, la poteva raccontare.
E infatti nel video di Pippo Fava che hanno proiettato sabato sera c’era molto sguardo e molto racconto: qualche minuto di riprese a camera fissa, girate probabilmente da un amatore, con lui, in piedi, a parlare di fronte a una scolaresca di Palazzolo del 1983, a proporre le sue frasi che duravano il tempo che dovevano durare, con le  digressioni in apparenza scoordinate, e il  ragionamento a fare da filo conduttore del discorso. Un discorso che era già un pezzo d’inchiesta molto più analitico di quelli che capita di vedere in tv nel 2014.
Forse perché il giornalismo d’inchiesta non esiste più, ed è stato sostituito dal giornalismo di denuncia, non lo so, però è diventato difficile vedere uno che si alza a parlare come si era alzato Pippo Fava di fronte a quei ragazzi, così, per cominciare un ragionamento.
Oggi se uno si alza a parlare è per puntare il dito, dire che schifo e invitare tutti quanti ad alzarsi anche loro, puntare il dito e dire che schifo insieme a lui.
L’analisi, quella cosa che in quel video Pippo Fava faceva con la bravura di chi racconta qualcosa per il gusto di raccontare e per l’utilità di porre questioni, è sparita in favore dell’indignazione.

Quindi sabato scorso, mentre mi venivano in mente tutte quelle cose sceme su Catania e il 1983, mi sono chiesto: ma se questo signore, questo catanese adottivo coi baffi e i capelli neri fosse uscito da quell’aula scolastica del 1983 e avesse ripreso il discorso in questo posto, in quest’aula consiliare di Palazzolo Acreide del 2014, con tutti i suoi amici riuniti a celebrare lui e il giornalismo d’inchiesta, se lo sarebbe potuto permettere questo sguardo così nitido? L’avrebbe potuto dire, sabato sera, tra i suoi concittadini più vicini alle sue idee, che c’era mafia e mafia come disse a Enzo Biagi, che Genco Russo era una cosa e Santapaola un’altra, l’avrebbe potuto fare un distinguo così acuto e ben argomentato, se a dibattere con lui ci fosse stato, che so, Marco Travaglio?
Avrebbe potuto parlare a noi, ai suoi amici, alla sua parte politica o civica, delle case abusive di Palma di Montechiaro e di Gela come ne ha parlato nel 1983 a quegli studenti suoi concittadini, senza che un grillino si fosse alzato a dargli del pennivendolo al soldo dei palazzinari?
Avrebbe potuto sottoporre agli studenti di un Itas del 2014 la questione negli stessi termini (un passo che mi ha incantato) in cui la sottopose a quelli del 1983: sì, va bene, sono stato a Palma e ho visto dei palazzoni orrendi crescere all’improvviso in mezzo a un paese povero, e mi sono chiesto, ma se qua questi sono così poveri, da dove spunta fuori tutto questo cemento? E quando ho capito che il cemento veniva dalle rimesse dei minatori gelesi in Belgio, mi sono chiesto: ma ora chi ci va dal minatore che per trent’anni ha mandato a casa ottocento mila lire al mese a dirgli che casa sua è abusiva e la dobbiamo abbattere? Come ci va un politico da lui a chiedergli un voto e a dirgli che se glielo dà lui prende una pala meccanica e gli sfracella i risparmi di una vita? Che ci facciamo, cosa ci faremo con questi ragazzini che giocano a pallone qua davanti a me, che ci faremo con voi studenti dell’Itas che l’anno prossimo vi diplomate e magari il giorno dopo siete su un pullman per Innsbruck? Cosa vi dico, cosa vi spiego? Forse è meglio se non vi spiego niente, forse è meglio se evito di giudicarvi per quel palazzo abusivo dove abitate, per quello che ha fatto vostro padre, o per quello che  avete fatto voi ieri sera quando avete finito di giocare a pallone qui in piazza, o per quello che non avete ancora fatto e che farete domani, al momento di cercare un lavoro, una casa, andare a votare. Forse è meglio se al posto di denunciarlo, l’abusivismo, ve lo racconto, vi racconto quello che ho visto e le domande che mi sono venute in testa: le avete viste, voi, le case della periferia di Palazzolo, le case del vostro paese? Quando guardate, cosa vedete?
L’avrebbe potuta fare ieri sera Pippo Fava questa cosa, quest’analisi, questa problematizzazione, questo discorso altamente pedagogico in cui si insegnava a dei ragazzi a guardare e non a dire che schifo? O la professoressa di lettere si sarebbe alzata e l’avrebbe preso a colpi di Fatto Quotidiano in testa?

Mentre consegnavano il premio alla bravissima Ester Castano, io mi sono sentito parte di una specie di messa laica, con tutti noi là dentro, i siciliani accomunati da questa idea di cosa è bene e cosa è male, che ci scambiavamo applausi di pace, e ci invitavamo a vicenda a tenere alta la guardia, a resistere, a prendere sempre più le distanze dalla mafia, dalla mentalità mafiosa, dai mafiosi, e dopo un poco, pur con tutta la contentezza, m’è venuto il mal di testa, mi sono sentito come mio padre quando parlava della gente e alzava i finestrini e abbassava le sicure, e allora sono uscito fuori, sulla piazza del municipio, a respirare l’aria fina di Palazzolo.
Mi sono ricordato che a un certo punto, negli anni Novanta, la percezione che da siracusano avevo di Catania era cambiata nettamente.

Catania piano piano era diventata la meta dei miei vagabondaggi diurni e notturni, al seguito degli amici che c’erano andati a studiare e si stavano godendo l’esplodere della Seattle d’Italia: il concerto dei REM, l’epopea della Cyclope Records, di Chicco Virlinzi, Carmen Consoli, il Mc Donald’s di piazza Stesicoro, il Taxi Driver, la ST Microelectronics, il frappé alla Nutella con la brioscina Dais frullata dentro.

A Catania, nei primi anni Novanta, non te lo potevi neanche immaginare la gente che c’era: però tutto ‘sto pericolo, sinceramente, a me non mi sembrava. Mai visto uno scippo, e sì che parcheggiavo dove capitava prima.
Oltretutto io l’università la stavo facendo a Pisa, una città così noiosa che o diventavi eroinomane (la città ne era anacronisticamente piena) o ti iscrivevi ai comitati universitari marxisti leninisti (la città ne era anacronisticamente piena). Quindi era abbastanza normale che non vedessi l’ora di tornare a casa e andare a trovare i miei amici: a Catania, la gente, pericolosa o no che fosse, si scialava la vita.
Poi ho pensato che almeno questo lo sapevo: me lo ricordavo che gli anni novanta a Catania erano stati quelli dei Santapaola e del salto di qualità, e mentre io ballavo alle feste grunge, le cose si mettevano peggio, altro che scippi, e a Palermo ammazzavano Lima, e poi Capaci, e poi via D’Amelio, e allora m’è venuta una smania tremenda e sono rientrato dentro l’aula consiliare facendo gli scalini quattro alla volta.
Mi sono seduto che avevo il fiatone e mi sono detto: adesso appena ti si stabilizza il respiro, ti fai coraggio, ti alzi e glielo dici, gli dici che la liturgia è sacrosanta, e quella di stasera è particolarmente sentita, ci tocca in qualcosa che tutti abbiamo dentro, prende i sentimenti e li innalza, però deve finire qua, deve essere confinata a questo momento, che deve rimanere l’unico in cui facciamo una cosa del genere. Tutte le altre volte che ci incontriamo, non le dobbiamo sprecare così, a ripeterci cosa è giusto e chi sono quelli che sbagliano, dobbiamo guardare, dobbiamo fare come faceva Pippo Fava: il giornalismo di denuncia deve diventare giornalismo di analisi, perché di questo abbiamo bisogno, di ragionamenti e di analisi, di metodo e di racconto. Ci dobbiamo abituare a chi ci racconta qualcosa per porre dei problemi, per farci grattare la testa come secondo me se la sono grattata gli studenti dell’Itas di Palazzolo Acreide nel 1983, per farci chiedere: ma che ci sta dicendo questo? Chi ci capisce niente qua, cosa mi sta chiedendo? Io non lo so cosa farei, non lo cosa se la casa gliela dobbiamo abbattere o no, aspetta, fammi vedere, quando l’ha costruita? Chi ci abita? Quanto è costata? Dove li ha presi i soldi, chi l’ha autorizzato, chi gliel’ha allacciata la luce e la fogna?
Deve farci pensare, il giornalismo d’inchiesta, non ci deve fare sentire migliori di qualcun altro, non deve fare la lista dei buoni e dei cattivi, con noi sempre da un lato e la gente sempre dall’altro.

La gente: io sono sicuro che a Pippo Fava la gente gli è costata la vita. Uno che andava a Palma di Montechiaro e si metteva a guardare i ragazzini che giocavano a pallone nella piazza, uno che guardava uno scippatore e gli chiedeva se abitava in uno di quei palazzi abusivi nella zona nuova di Gela, uno che sapeva che le rimesse di ottocentomila lire al mese di un minatore di Marcinelle erano l’oro della Sicilia, uno così, uno che guardava alle cose in quel modo, secondo me non li alzava i finestrini. E non metteva manco la sicura.
Poi però non ho detto niente, mi sono andato a mangiare la salsiccia di Palazzolo, che è la più buona del sistema solare.

Mario Fillioley

Ho tradotto libri dall'inglese in italiano. Poi ho insegnato italiano agli americani. Poi non c'ho capito più niente e mi sono messo a scrivere su un blog con un nome strano: aciribiceci.com