Sono un italiano

È molto facile fare dell’umorismo sull’indimenticato tormentone di Toto Cutugno e sull’autoradio sempre nella mano destra che, con certezza, oggi non è più un’immagine fedele dell’italiano, ma cosa significa oggi allora esserlo? È evidente infatti che l’eccitazione degli animi sulla questione della nazionalità e della identità del rapitore di bambini, e dei bambini dal sangue freddo e nervi d’acciaio a dodici anni, dipende dal fatto che in realtà è una discussione su di noi. In ogni reazione e ogni discussione stiamo investendo noi stessi e, sia detto con empatia per chi vuole cambiare il mondo nella direzione di una maggiore apertura e fratellanza, è un dibattito che ha poco a che vedere con ragioni etiche e molto con ragioni emotive, appunto, che hanno a che fare con l’identità di chi difende, a turno, una posizione o l’altra.

La dimensione della popolazione straniera in Italia, a partire dalla grande crisi economica del 2007-2008 è circa raddoppiata, arrivando oggi a sfiorare il 10 per cento del totale. Trattandosi di una media è evidente che mentre nei centri storici e ai Parioli (inteso come categoria dello spirito, non come l’elegante quartiere di Roma) questa popolazione si riduce al personale di cura e servizio, in altre parti d’Italia si è passati da zero al venti, trenta per cento in dieci anni, o meno. Dato che sono stati anni di crisi economica durissima, il fatto che questo aumento sia avvenuto con scontri di tipo etnico-culturale trascurabili rispetto a ciò che si vede e si è visto in altri paesi Europei come la Gran Bretagna o la Francia è senza dubbio un fatto da rimarcare, e che andrebbe studiato meglio. Ma comunque, questo aumento così rapido non può che portare con sé questioni identitarie e di convivenza.

La cosa che mi preme sottolineare è che quando si sente parlare di integrazione e cittadinanza, di solito, non si capisce di cosa parliamo a parte un vuoto formalismo. Per ragioni stratificate che hanno a che fare anche con l’Unità d’Italia organizzata dai piemontesi e con il dopoguerra dominato da DC e PCI, un discorso nazionale sull’italianità non è mai esistito, e a molti sembrava un bene perché ci risparmiava fesserie retoriche sulla patria da lasciare al Ventennio da dimenticare. Tuttavia, anche se vogliamo risparmiarci la retorica patriottarda che non ci convince, lasciandoci come unica indulgenza dello stesso tipo i brividi all’inno prima della partita nazionale di calcio, in realtà il momento in cui parlare di cosa significhi essere italiani o italiane è proprio questo, è esattamente quando pensiamo che bambini come Rami, nati o cresciuti in Italia, debbano ricevere la cittadinanza con relativa facilità che dobbiamo chiederci le ragioni di sostanza, oltre a quelle di forma.

A parte il fatto che guardano gli stessi cartoni, sentono le stesse canzonette e tendenzialmente praticano gli stessi sport degli italiani da più generazioni, a quali valori oltre che abitudini e usanze, pensiamo sia giusto sottolineare la loro comunanza? Senza una risposta a questa domanda, che non è mai unica e definitiva ma inserita in un dibattito continuo, fatto di storie e racconti, il discorso sulla cittadinanza o sostenere lo ius soli finisce per forza per sembrare una forzatura ingiusta da chi sa di essere italiano senza bisogno di capire perché. Anzi peggio: senza questa discussione diventa solamente una pratica burocratica, mentre invece deve essere un tema di civiltà e convivenza.

Io, per esempio, ho visto crescere la mia italianità per contrasto, in tanti anni in Svizzera e Londra, e con una familiarità costante con gli Stati Uniti. Io più vivevo all’estero, più ero contento di essere e sentirmi italiano e romano. Per esempio, penso che il valore di cura, di attenzione alle persone, soprattutto ai bambini, che abbiamo noi è raro e speciale (e spesso si manifesta con la nutrizione, ma non solo). Penso che molti dei nostri difetti nazionali siano dei pregi estremizzati (come spesso accade anche alle persone) e che tenere a bada i difetti si può fare solo senza frustrare le qualità. Penso che siamo dei grandi lavoratori, molto tenaci in contesti organizzativi e di potere difficili e antichi. Penso che siamo capaci di risolvere con grande creatività e freddezza anche le più complicate situazioni, e proprio per la nostra familiarità con le emozioni (che gli anglosassoni confondono con melodrammaticità, che invece è la nostra autoironia) siamo in grado di controllarle quando serve. Il capitano che dice “salga a bordo cazzo” e il ragazzo che dice con commovente educazione “scusi signore, c’è un pazzo col coltello” li trovo dei gesti estremamente italiani, che riconosco in familiari e amici. Penso che, forse per abitudine alle nostre stesse diversità, ci riferiamo istintivamente e con naturalezza agli individui, anziché al gruppo a cui appartengono.

Poi naturalmente potrei continuare, e riferirmi a virtù collettive, alla forza della scuola pubblica bistrattata quanto volete, ma spina dorsale in grado di evolversi da sé come le vere grandi istituzioni; alla categoria dei “professori di scuola” che è una specie di esercito di intellettuali coltissimi presenti in ogni angolo della penisola che è letteralmente unico al mondo; alla evoluzione della famiglia che, mentre con evidenza avanza dentro casa la parità tra uomo e donna (sempre troppo poco, naturalmente, è un percorso lungo), non per questo ha perduto la capacità di accogliere e proteggere, al contrario l’ha rafforzata a ogni passo in cui alla famiglia cosiddetta tradizionale (a me – suo membro tipico – viene da dire: tradizionale sarà tua sorella), si sono affiancate famiglie di conio nuovo. Una delle cose più italiane poi è la assoluta severità e mancanza di indulgenza per i difetti del proprio popolo per il quale si hanno, in tutta evidenza, aspettative pazzesche, per cui ogni mancanza è prova ultima e definitiva della nostra inadeguatezza. Sento nelle orecchie i commenti mentali di molti lettori che a ogni virtù che provavo a descrivere associavano dieci eccezioni, vere per carità!, ma che non possono pesare sempre troppo. Secondo me, ovviamente.

Perché poi naturalmente ognuno ha la sua di idea di italianità, e ognuno vede quel che vuole e anzi un paese come il nostro è inevitabile che accolga idee più eterogenee di sé rispetto a paesi centripeti come la Francia o la Gran Bretagna. Rimane tuttavia quello che sembra un paradosso, ma non lo è: chi sostiene davvero che i bambini nati in Italia debbano essere italiani deve anche guardare, riconoscere e saper parlare di cosa significa e da dove viene l’idea di Italia e del suo popolo.

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_