Cosa è lo Huffington Post, davvero

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).

Da domani in Italia si parlerà dello Huffington Post in altri termini, con l’uscita della versione italiana. Ragione in più per avere maggiore chiarezza sul modello americano e su come abbia funzionato finora. Vittorio Veltroni, che ne sa, ha scritto una cosa finalmente competente sulla forza dello Huffington Post e le ragioni del suo successo: e la prima cosa vera la dice già nell’incipit.

Non per tutti è chiaro che cosa sia effettivamente la corazzata Huffington Post

In effetti il successo americano dello “HuffPo” è stato molto equivocato e raccontato un po’ superficialmente qui. All’analisi di Veltroni io vorrei aggiungere quello che è da molto tempo il mio parere, che a quell’analisi assomiglia.
Lo Huffington Post non ha avuto nessuna idea rivoluzionaria: a guardarlo e leggerlo non è un oggetto diverso, in termini di contenuti e di forma, da moltissimi siti di news. La sua unica e vincente idea rivoluzionaria è stata quella di sfruttare – militarmente e arruolando e costruendo straordinari know-how – ogni opportunità nuova offerta dalla rete: fare tutto, farne tanto, farlo professionalmente.
Hanno capito le chances create dall’aggregazione di contenuti altrui, e ne hanno aggregati e offerti tantissimi. Hanno capito l’importanza della promozione sui social network, e ne hanno studiato e messo in pratica ogni sviluppo efficace. Hanno capito l’attrattiva dei blog non pagati per gli autori e ne hanno dati in giro migliaia (persino a me), recuperandone pagine viste gratis: anche se il loro valore nell’economia generale dello HuffPo è molto sopravvalutato, come spiega giustamente Veltroni (per coincidenza, tutta questa settimana le strisce di Doonesbury attaccano il rapporto dello HuffPo con i blogger non pagati). Hanno capito che i lettori della rete non vogliono più solo giornalismo, informazione e attualità, ma soprattutto “contenuti”: e hanno riempito il sito di liste, video, strano-ma-vero e altri classici del “boxino morboso” che generano supernumeri. Hanno capito la scienza del SEO (search engine optimization) e ne sono diventati scienziati: nei titoli, nei testi, nei tag, nella stessa scelta delle notizie da pubblicare.
Hanno fatto tutte queste cose con un’assiduità e una professionalità inimitate (quando mi mostrarono la redazione, la prima volta che andai, mi dissero: “quei venti sono la redazione, gli altri cinquanta fanno SEO”).

Poi sono un giornale con una sua vaga linea editoriale e una più definita linea politica. Ma quello conta poco: sono soprattutto un grande editore, capace di vendere i suoi prodotti molto diversi tra loro e di individuare la domanda del mercato. Io credo che la versione italiana sarà anche altro: magari me lo auguro, persino, e lo auguro a loro.


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