Sciolgo le trecce e i cavalli

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).

Mi piacerebbe sapere se qualcuno ha mai battezzato un genere musicale nato alla fine degli anni Ottanta e divenuto immortale malgrado comprenda canzoni del tutto diverse tra loro e sia ascoltato in luoghi molto diversi. Fu un genere “revival” di fine millennio, che recuperò un mischione di cose tra lo stupido e il danzereccio dai decenni precedenti, tutte unite dall’effetto che quando la musica attacca gli ascoltatori si danno di gomito e si sentono spiritosi, e idem i compilatori. Avete capito di che parlo. “Sciolgo le trecce e i cavalli”, il Tuca Tuca, le sigle dei cartoni giapponesi, Le mille bolle blu, Disco duck e le cose più sceme o allegre della discomusic, Toto Cutugno, i Righeira, eccetera. E naturalmente Discosamba.
Cioè, all’inizio fu anche divertente reinvadere alcune zone del palinsesto dei locali colonizzate dalla house e dalla techno con quelle idee sdrammatizzanti e che buttavano in vacca il prendersi sul serio della cultura club. Poi però le scelte fecero la muffa, e finirono come il liscio per le generazioni prima: buone per i villaggi vacanze e le feste più deprimenti, con il geometra Calboni e la signorina Silvani contemporanei. E soprattutto, buone per le piste da sci: trasformate da anni da luoghi di bellezza a luoghi di caciara e mediocrità conformista. Dove Sciolgo le trecce e i cavalli impazza, alternato alla techno col moscone e a Baltimora.
Ha un nome, quel mischione di scemenze per sentirsi tutti molto scemi e contenti? E soprattutto, il governo Monti può far niente?

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