Il potere al deejay

Sulla centralità del ruolo del deejay nei nostri tempi annoio da anni diversi interlocutori: in estrema sintesi, penso che in un mondo e in un tempo in cui è ricchissima l’offerta di contenuti di ogni genere e difficilissimo l’orientamento e la selezione in mezzo a questa offerta, sia diventato importantissimo il lavoro di selezione e aggregazione da una parte e di costruzione di un rapporto di fiducia e condivisione con gli utenti dall’altro. Chiamo quindi deejay i compilatori di rassegne stampa, molti blogger, i galleristi d’arte, i montatori di Blob, i giornalisti di Internazionale e quelli del Foglio dei fogli, gli stessi deejay (e naturalmente il Post), eccetera.

Giovedì ho assistito alla presentazione del libro di Matteo Renzi a Milano. Lui chiama questo genere di idea a metà tra uno show e un comizio, “format”: espressione che gli piace e che aveva usato anche per le giornate (con “consolle”, appunto) alla stazione Leopolda di Firenze. E il format di Renzi è di fatto la declinazione dell’idea del deejay nella comunicazione politica: lui seleziona immagini, video, canzoni, testi, film, li raccoglie insieme e li presenta, in un percorso e un progetto comune. Fa il deejay, e al posto in una serata a tema anni Settanta piena di vecchie canzoni, propone un discorso politico pieno di idee, slogan, evocazioni e citazioni, sia politiche che sentimentali.

Come show funziona. Meglio del 90% delle presentazioni di libro, meglio del 99% dei comizi. Quello a cui pensavo, mentre lo guardavo, era se possa funzionare anche per la stessa attività politica. È indubbio che la politica non sia più né possa più essere quella a cui siamo stati abituati quando sembrava una cosa buona e importante: questo non è ne buono né cattivo (o magari sì, ma non importa), semplicemente è. Per questo faccio fatica a discutere con molti amici che sperano di raddrizzare il disastro italiano riproponendo idee di politiche, di partiti, di rapporti sociali, che ricordano da altri tempi: perché loro pensano che la contesa sia tra un’idea buona e una sbagliata in astratto, mentre il tema è il confronto tra un’idea adeguata ed efficace e una sconfitta e implausibile, tra una attuale e una superata. È come quando la squadra ha un allenatore simpatico, colto e intelligente, ma che perde da dieci partite: lo si cambia, perché vuol dire che serve altro. Ed è evidente che alla politica italiana serve altro che un’impossibile restaurazione di meccanismi e letture sconfitte e anacronistiche, e complici evidentemente del guaio in cui siamo finiti.

Ma torno al deejay. Mi chiedevo, insomma, astrattamente, se esista una declinazione del ruolo del deejay in politica: una capacità di raccolta e selezione di ciò che di meglio il mondo e e il pensiero contemporaneo offrano nella progettazione di un futuro proficuo. Se il vecchio “progetto politico”, la stessa “ideologia”, non possano essere rimpiazzati da bravi deejay, che abbiano buone antenne e buona cultura per cogliere quello che circola e capire di cosa c’è bisogno, e buona capacità di comunicazione e condivisione con i cittadini per guadagnare la loro fiducia.

Magari è una fesseria, e molti saranno inclini a ritenerla tale (“hang the deejay”, diranno): ma suggerisco loro di farci un pensiero aperto e senza pregiudizi. Perché se invece fosse così, Matteo Renzi è l’uomo migliore che c’è.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).