Il faticoso dibattito attorno all’Italicum

Checché ne dica Travaglio, alla Costituzione vogliamo bene tutti: quelli che vogliono modificarla e quelli che vogliono tenerla com’è (benché in quest’ultimo schieramento ci siano molti che l’hanno sempre apertamente detestata). Quello di cui si tratta in questo momento è se i meccanismi di funzionamento del nostro sistema istituzionale – il motore di una macchina la cui carrozzeria, i cui interni e la cui centralina di controllo nessuno ha intenzione di cambiare – debbano essere resi più semplici e funzionali, come tutti chiedono da almeno quaranta anni, o se invece tutto debba restare esattamente e disperatamente com’è, dato che a un’altra riforma in tempi brevi non ci crede davvero nessuno (diciamolo: nemmeno D’Alema, che di riforme tentate e fallite ne sa qualcosa).

È di questo che dovremmo parlare, senza cedere alla tentazione dell’uso armi di distrazione di massa. Senza argomenti apodittici e senza allarmismi che, oltre che falsi, sono pure intellettualmente disonesti. Uscendo dal politichese del 2016 e cominciando a porci il problema di come sarà l’Italia nel 2046, se oggi approveremo questa riforma o se la respingeremo. Se sarà meglio per noi nel lungo periodo, giusto per fare qualche esempio: introdurre i referendum propositivi; limitare il ricorso alla decretazione d’urgenza; fare in modo che di commercio estero, infrastrutture, energia e turismo si occupi lo Stato e non venti regioni in venti modalità differenti e sconnesse; pagare 630 parlamentari invece di quasi mille e ridurre gli stipendi dei consiglieri regionali al livello di quello del sindaco della città capoluogo, e fare le leggi con il voto di una camera sola invece dell’inutile rimpiattino tra due assemblee composte dai rappresentanti degli stessi partiti, ma inspiegabilmente viventi vite autonome e indipendenti.

Ci si aspetterebbe un contributo in questa direzione in primo luogo dai saggi, dagli anziani della nostra tribù, quelli destinati a portare il contributo di saggezza dato loro dalle molte stagioni vissute e dalle lunghe esperienza accumulate. E invece, quello che un po’ stupisce e addolora è che anche taluni potenziali padri della Patria si agitino sgraziatamente portando nella discussione argomenti che coprono il rischio di rovinare, alla fine, reputazioni che sono talmente gloriose da essere diventate patrimonio della collettività prima ancora che dei rispettivi titolari. Bisognerebbe astenersi da dire sciocchezze dal Pantheon non solo per rispetto di se stessi, ma anche del Pantheon.

Un esempio preclaro di quello che intendo si riviene nelle pagine del libro di un uomo per il quale nutro, come tanti, deferenza e rispetto. Lo ha scritto, appunto, Gustavo Zagrebelsky (insieme con Francesco Pallante) e si intitola Loro diranno, noi diciamo (sottotitolo: Vademecum sulle riforme istituzionali). Ci si può lì imbattere in un brano che, pretendendo di illustrare presunti vuoti legislativi e assurdità dell’Italicum, afferma quanto segue:

«1) cosa succede se due liste raggiungono almeno il 40% dei voti (come accadde alle elezioni del 2006)? Secondo la lettera della legge, entrambe avrebbero diritto a 340 seggi, dunque dovremmo avere – contro il dettato costituzionale – una Camera composta da 680 deputati più gli eletti all’estero (tutte le altre soluzioni ipotizzabili contrastano con la legge: così è per la non attribuzione del premio, per l’attribuzione del premio alla lista che ha più voti, per il ricorso comunque al ballottaggio);

2) cosa succede se una lista conquista la maggioranza (316 o più seggi) al primo turno senza aver raggiunto il 40% dei voti validi (ipotesi che può verificarsi, dal punto di vista matematico, se le liste che non superano la soglia di sbarramento del 3% sono molte e raccolgono nel loro complesso almeno il 27,5% dei voti)? In tal caso, poiché nessuna lista ha raggiunto il 40% deve comunque tenersi il ballottaggio, in esito al quale la lista vincente otterrà 340 seggi (e se risulterà vincente la lista che al primo turno non aveva raggiunto la maggioranza assoluta, tale lista otterrà i 340 seggi sottraendo seggi alla lista “che già aveva conseguito la maggioranza assoluta…).”

Alla fine di questo passaggio, si potesse per il bene dell’intelligenza collettiva del nostro Paese premere il tasto del replay, varrebbe la pena di prosciugare istantaneamente l’inchiostro sulla carta e farlo risalire velocemente nella cartuccia della penna del Professor Zagrebelsky nell’atto di scrivere.

Nel lungo articolo 2 dell’Italicum, c’è infatti scritto (art. 83, commi 2 e 5) che l’Ufficio centrale nazionale individua la lista che ha ottenuto la maggiore cifra elettorale nazionale; e verifica se la cifra elettorale nazionale della lista con la maggiore cifra elettorale nazionale, individuata ai sensi del numero 2), corrisponda ad almeno il 40 per cento del totale dei voti validi espressi. Non “le liste”, ma “la lista” che ha ottenuto più voti ottiene il premio di maggioranza se ha superato il 40% e solo se non abbia ottenuto più di 340 seggi. Fine della prima obiezione.

Quanto alla seconda, poi, essa è figlia della stessa illusione ottica per la quale il ballottaggio può consegnare il Paese a una “esigua minoranza”. Il ballottaggio è una nuova elezione a tutti gli effetti, e permette che venga espressa e conti anche l’opinione di coloro che al primo turno hanno scelto forze politiche marginali (che, nell’ipotesi di Zagrebelsky, sarebbero oltre un quarto degli elettori) e persino quella di coloro che al primo turno non hanno nemmeno votato.

Al ballottaggio si possono certamente ribaltare i risultati del primo turno; è un meccanismo insito nell’idea stessa di avere un secondo turno, senza il quale – per fare un esempio – il Front National non sarebbe fuori da tutti i governi regionali francesi, compresi quelli dove al primo turno aveva fatto faville. Ed è del tutto evidente che, in un’elezione che si svolge a due turni, parlare di “conquista dei seggi” prima che si sia svolto il secondo turno è come dire che si assegnano tre punti in classifica a chi vince uno a zero alla fine del primo tempo.

Certo, “Loro diranno, noi diciamo” non ha pretese di saggio accademico, e nasce – con tutto il rispetto per il blasone della Laterza – con le finalità di un instant book propagandistico. Ma sarebbe vantaggioso per tutti se i nostri accademici e i nostri cattedratici ci aiutassero con metodo scientifico a formarci un’opinione, lasciando invece certi infelici metodi della politica a noi politici. Che già si fa una gran fatica, anche senza il loro contributo, a tirare su il livello del dibattito.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.