Non sono possibili altre mediazioni sulle unioni civili

Si avvicina il 26 gennaio e la temperatura aumenta. In questi giorni si discuterà tanto di unioni civili sui giornali, in televisione, credo anche negli uffici, per strada e nelle famiglie. Spesso si pensa che i diritti siano argomento politico di serie B, e invece alla fine è proprio intorno alle vicende della vita che il coinvolgimento dei cittadini diventa più diretto e personale.

In queste ore si moltiplicano gli appelli a “cercare una mediazione” sul testo che andrà in aula al Senato: ne hanno parlato in tanti, dentro e fuori dal Partito democratico. Dal mio punto di vista, non credo siano possibili altre mediazioni per il semplice motivo che questo testo rappresenta già per il suo nucleo fondamentale una sostanziale mediazione.

Tutti sanno che le unioni civili non sono il matrimonio ugualitario, che è la soluzione adottata da quasi tutti i paesi occidentali, fatti salvi i paesi mitteleuropei e l’ultima arrivata Grecia. Sul tema del matrimonio ugualitario – cioè dell’estensione dell’istituto matrimoniale anche alle coppie gay e lesbiche – nel 2015 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha scritto parole destinate a passare alla storia come quelle che pronunziò nel 1967, quando eliminò un’altra barriera matrimoniale, quella tra uomini e donne la cui pelle non fosse dello stesso colore.

Sancire l’apertura al matrimonio ugualitario non serve soltanto a dare alle coppie dello stesso sesso la possibilità di sposarsi, ma produce un corollario ancora più importante, che è poi la vera posta in gioco di ogni battaglia per i diritti civili: quello di stabilire l’uguaglianza di tutti cittadini davanti alla legge.

Hanno percorso questo cammino altri gruppi sociali privati dell’uguaglianza formale davanti alla legge. Le donne, per esempio, che hanno conquistato diritti a loro precedentemente negati come il voto, la possibilità di concludere negozi giuridici, l’accesso a tutte le professioni e incarichi pubblici. Poi i neri negli USA, a cui è stata riconosciuta, con il superamento della segregazione razziale, l’integrazione nelle scuole e anche la possibilità di poter sposare chi volevano.

In tutti casi, con la rimozione della discriminazione non si produceva solo l’effetto concreto (votare, poter firmare contratti o studiare nelle stesse scuole con i bianchi), ma si affermava un principio di portata più generale: la pari dignità delle persone davanti alla legge. Oggi tocca alle persone omosessuali, e il matrimonio rappresenta oggi per loro quel diritto attraverso la cui negazione si manifesta il loro status di cittadini a diritti diminuiti.

Al matrimonio possono accedere tutti, anche gli ergastolani a cui sono stati tolti i diritti politici, ma non le persone gay e lesbiche. Introdurre il matrimonio, prima ancora dell’effetto pratico del poter sposarsi, significa quindi innanzi tutto affermare che non ci sono istituti giuridici ai quali non si può accedere a cagione del proprio orientamento sessuale.

In moltissimi paesi amici e alleati dell’Italia, anche di cultura cattolica come Spagna e Portogallo, le coppie omosessuali hanno da molti anni acquisito la piena parità davanti alla legge e dunque le persone gay e lesbiche si sono viste riconoscere l’uguaglianza davanti alla legge. Non c’è più differenza tra coppie gay e coppie etero perché non c’è più nessuna differenza tra cittadino gay e cittadino etero. In Italia nessuna di queste due conseguenze si produrrà, perché la legge che sosteniamo non lo prevede.

Questa è dunque chiaramente una “mediazione”, e certamente non di secondaria importanza.

Mi si dirà: ma le unioni civili sono di fatto molto simili al matrimonio. Vero, ma vero anche che non sono il matrimonio. Il principio per cui a una minoranza si dà una cosa simile a quella della maggioranza ma non la stessa, è passato nella cultura e nella storia americana col nome di “Equal but separate”: gli afroamericani potevano viaggiare sull’autobus con i bianchi, ma a condizione che si sedessero in posti differenti. Le unioni civili sono la stessa cosa: ti diamo lo stesso autobus (cioè gli stessi diritti), ma non ti puoi sedere insieme con gli altri (cioè i posti con l’etichetta “matrimonio” te li puoi scordare, per te ci sono le “unioni civili”). Uguali, ma separati.

Fu per ribellarsi a questo che Rosa Parks a Montgomery, in Alabama, diede inizio con il suo gesto alla vicenda dei neri americani che è culminata (ma non finita, come le tensioni tra comunità afroamericana e polizia ci raccontano in queste settimane) con l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca.

Rosa Parks era sull’autobus, non andava a piedi. Ed era proprio sullo stesso autobus dei bianchi, non un altro autobus. Eppure si ribellò al fatto di non poter essere esattamente come loro, di non poter sedere in mezzo a loro, di dover stare in un recinto diverso dal loro. Lo dico perché sia chiaro che le unioni civili, per quanto possano essere simili nel contenuto al matrimonio, sono appunto una mediazione.

E veniamo alla “stepchild adoption”. La stepchild adoption stabilisce una cosa in modo molto chiaro. Che una famiglia fatta di due papà o di due mamme non è in grado di adottare un bambino, se non già cresciuto nella famiglia. Un’eccezione, insomma, al principio che le coppie omosessuali non sono di per sé idonee a essere genitori. È l’eccezione che conferma la regola della discriminazione, insomma. Non lo dico per usare una parola grossa, mi limito a constatare. La legge confermerà che ci sono coppie (e dunque persone) che a priori sono giudicate inidonee a crescere ed educare un bambino. Anche qui, dunque, non sarà sancita l’uguaglianza delle persone davanti alla legge.

La stepchild adoption è dunque una mediazione. Ed è una mediazione non solo rispetto alla parità e all’uguaglianza tra le coppie, ma anche dal punto di vista del bambino. Per fare un esempio, il bambino adottato con la stepchild adoption, diventa figlio dell’adottante ma non acquisisce altri legami con la famiglia del genitore adottivo. Niente nonni, per esempio. E ciò che è ancora più incredibile, nemmeno niente fratelli.

Mi spiego: si pensi a una coppia di due donne che crescano insieme due bambini: uno figlio dell’una, l’altro figlio dell’altra. In caso di stpechild adoption “incrociata” (cioè dove ogni donna adotta il figlio dell’altra) i due bambini, pur vivendo insieme e pur essendo legalmente figli di entrambe le donne, non saranno fratelli tra di loro. Mi pare evidente anche da questo punto di vista che siamo certamente in presenza di una mediazione: anche questi bambini non saranno uguali agli altri bambini davanti alla legge.

Il ddl Cirinnà tiene conto della complessità del quadro politico e dell’ambiente italiano, purtroppo ancora molto acerbo (me lo conferma tutti i giorni la lettura dei giornali, a partire da quelli cosiddetti progressisti), e può considerarsi accettabile, se paragonato alle soluzioni adottate da altri ordinamenti, solo alla luce di queste considerazioni.

Chi da anni aspetta l’approvazione di questo provvedimento ha dimostrato una grande maturità nell’accettare che anche con l’introduzione nel nostro ordinamento delle unioni civili e della stepchild adoption non sarà restituita né a loro né ai loro figli l’uguaglianza davanti alla legge.

Va dato atto che, al contrario di quanto avviene di solito in queste materie, si sono messi da parte gli “approcci ideologici” (per quanto fondati) e si è lavorato pragmaticamente a un testo che rappresenta un punto di equilibrio alto ma fragile. Un punto di equilibrio che bada alla sostanza, ma che ancora non coglie il punto centrale di questa battaglia civile e ideale: il riconoscimento dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge indipendentemente dal loro orientamento sessuale e dunque l’affermazione della pari dignità di tutte le persone.

Io credo che il non riconoscere la solennità e il sacrificio di questa rinuncia – in questa fase, perché l’aspirazione all’uguaglianza è un afflato insopprimibile in ciascuno di noi – e il chiedere ulteriori rinunce non sia intellettualmente onesto. Questo è forse per tutti un risultato lontano dalla perfezione, ma è anche l’unico accettabile per tutte le parti: voler portare a casa di più in questa partita, rivela malamente l’intenzione di farla naufragare.

Non sarebbe giusto per nessuno, e nemmeno per l’Italia che si trova in una situazione politicamente e giuridicamente imbarazzante dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Chi è contrario, dunque, voti no. Ma non si tenti spezzare una corda che ha già raggiunto la massima tensione.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.