Molisana a testa in giù

Dopo la polemica sulla pasta Molisana dal «sapore littorio», mi è capitato di vedere, da qualche parte su Facebook, la foto di una confezione di pasta Molisana, ma capovolta. Qualcuno l’aveva messa a testa in giù, come il cadavere di Mussolini, sopra lo scaffale di un negozio. Poi l’aveva fotografata. L’azione di capovolgere la foto di un oggetto o di un corpo ha dato luogo in rete a un filone memetico e identitario, nel quale si allude al corpo appeso di Mussolini e con il quale si dichiara il proprio antifascismo.

Dopo aver visto la foto della Molisana, succede che nel primo pomeriggio esco e vado al supermercato. A fine spesa mi dirigo verso il corridoio della pasta. Confesso che la vista di quel tipo di pasta a conchiglia chiamato «Abissine», oggetto della polemica, mi ha messo una grande voglia di pasta a conchiglia. Non lo dico certo per amore della provocazione, ma solo perché è la verità. Esiste una intelligenza e un’autonomia del corpo sensibile, evidentemente, che preme, confonde, desidera e va al di là di ogni nostra valutazione e antifascismo. Mi era venuta voglia di conchiglie. O meglio: la lingua stessa, come un organo indipendente, aveva desiderio di tornare a quella pasta cava che non riassaggiavo da tempo, liscia all’interno e striata in superficie, memore del fatto che il ragù ha il vizio di raccogliersi deliziosamente all’interno.

Non prendo le conchiglie della Molisana, per il fatto che mi sentirei in colpa, ma voglio comunque cercarle, vederle e girarmi tra le mani la confezione. Finalmente trovo la Molisana e, sorpresa, scopro che qualcuno ha messo il primo pacco delle «Abissine» a testa in giù, per il solito giochino con il quale si vorrebbe richiamare piazzale Loreto, la foto in bianco e nero di Mussolini lacero e capovolto e la vittoria del CLN sul nazifascismo. Un po’ me lo aspettavo.

L’episodio mi riporta alla mente un incontro risalente a qualche anno fa con due persone che erano a piazzale Loreto il 28 aprile 1945 e videro con i propri occhi il corpo a penzoloni del capo del fascismo. Mi dissero che i cinque cadaveri appesi alla pensilina di un distributore (Benito Mussolini, Claretta Petacci, Nicola Bombacci, Achille Starace, Alessandro Pavolini) non furono un bello spettacolo. Perciò venne loro spontaneo uscire dal piazzale e allontanarsi. Le due persone, all’epoca poco più che bambini ma antifascisti pensanti e attivi, erano il poeta Franco Loi, scomparso qualche giorno fa, e un signore di nome Sergio Temolo. La storia di quell’incontro, per me indimenticabile, la raccontai proprio qui sul Post.

Sergio Temolo nell’agosto 1944 aveva perso il padre Libero, operaio comunista alla Pirelli, fucilato insieme ad altri quattordici antifascisti nello stesso luogo, Piazzale Loreto. Alla vista dei cinque cadaveri, Loi mi disse di aver provato disagio. Sergio, ascoltando le parole del suo amico Franco, fece una strana smorfia e poi un gesto in aria con la mano, come a dire: «Ma sì, ma sì, non fu una bella scena… la destra ci ha vergognosamente ricamato sopra a scopo di propaganda, per descrivere la Resistenza e la Liberazione come fenomeni intrisi di una violenza pari a quella messa in atto dai fascisti, ma ciò non toglie che fu una brutta scena, o meglio: fu l’epilogo fisiologico della terribilità della guerra e del fascismo e, in quanto tale, non c’è da biasimare né da vantarsi, ma si resta così, sospesi e muti…». Questa è la veloce catena di pensieri che mi sembrò di cogliere nell’espressione di Sergio e in quel gesto fugace della mano.

Sul conto dei cadaveri appesi in Piazzale Loreto, l’ho sempre pensata come Franco e Sergio. Di conseguenza ho sempre considerato infantile, imbarazzante, non all’altezza della tragicità dei fatti, usare l’immagine del duce appeso con la disinvoltura e il cinismo con cui lo si è fatto, soprattutto in questi ultimi anni. Non lo considero all’altezza di un antifascismo esigente, solido, fatto di lettura, memoria del trauma e rigoroso ascolto dei testimoni. L’antifascismo è un abito che va saputo portare. La sua sintesi non è in quel fotogramma di vendetta, che ripresenta quella contemplazione del teschio e della morte che fu semmai un tratto specifico del fascismo, ma è nelle tante foto delle città liberate, che forse, non avendo in sé la qualità del cinismo malevolo, finiscono per non avere su internet lo stesso potenziale del meme «a testa in giù».

Il meme è un dispositivo che sintetizza e veicola l’informazione, ma ci sono vicende così corpose che non possono passare attraverso una macchina di astrazione potente e sofisticata senza che la polpa non ne venga strappata via, lasciando un misero osso. Il meme «a testa in giù» non produce nessuna illuminazione, nessuna rivelazione o integrazione di conoscenza, ma solo ripetizione sorda e faziosa della propria identità antifascista, che diventa così per il gruppo una forma di tribalismo e per l’individuo una forma tra le tante di autocompiacimento e narcisismo. Del resto, chi vuoi che si accorga al supermercato di quella confezione rovesciata, se non chi è già parte della tua tribù? Solo ripetizione e riconoscimento tra simili. Diciamo la verità: anche l’antifascismo, un po’ come la capacità di comprensione del testo, partecipa di un generale processo di deterioramento, cognitivo e anche emotivo.

Il mio viaggio al supermercato non è finito, anzi. Il secondo atto si svolge davanti ai miei occhi lasciandomi incredulo, come se stessi assistendo a una candid camera. Riporto senza commenti. Al momento di pagare, mi trovo in mezzo a due casse, dove sono seduti un commesso e una commessa, entrambi giovani, sui trent’anni. Arriva un terzo commesso, coetaneo, che si rivolge agli altri due: «Ma… avete saputo della pasta, di questa pasta qua?». Quindi mostra ai due colleghi un pacco di «Abissine» preso dallo scaffale. Non si capisce se i due interpellati siano al corrente della polemica. Forse lo sono, ma in misura vaga, avendo magari sbirciato qualche discussione su un social.

La ragazza dice, con tono scettico, come se stesse denigrando le capacità mentali di un’intera e anonima legione di persone: «Ah, praticamente dicono che questa pasta è, tipo, un “rigurgito fascista”…»; il collega che le siede a fianco fa sponda allo scetticismo di lei, e aggiunge: «Ma con tutti i problemi che ci sono…». La ragazza continua: «con ‘sto politically correct… ma l’avete letta quella della ragazza spagnola, che aveva perso un cane di nome “Negro”? In spagnolo significa “nero”… praticamente la ragazza ha scritto un appello su Facebook per cercare il cane scomparso e avendo scritto il nome del cane, cioè “Negro”, è successo un putiferio… ma ti pare?!?!?!». La discussione è proseguita, ma a quel punto avevo già pagato e me n’ero andato.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).