La cosa che ho saputo sulle pulci

Siamo partiti dall’omeopatia. Le cure alternative. Poi i fenomeni mistici inspiegabili.

Parlando le ho detto che, forse, milioni di anni fa erano esistiti altri due noi primitivi. Un me primitivo ed una lei primitiva.

Era una questione di probabilità: Dati milioni di milioni di esseri umani nati, cresciuti e morti, c’erano, credo (le ho detto) delle buone probabilità che fossero esistite già, nel passato, due persone molto simili a noi.

Probabilmente la mia copia, essendo (per dire) un uomo dell’anno due, non avrebbe avuto questa passione per i giochi al computer che definisce la mia persona, oggi, nell’attualità.

Ma forse, ho pensato (e le ho detto) seppur traslato su argomenti dell’epoca, poteva essere esistito qualcuno molto simile a me. Magari, dove io mi ero entusiasmato nell’uccidere insetti giocando alla PS3 lui aveva provato sensazioni simili spiaccicando grossi insettoni primordiali nella grotta sua, nel tempo suo.

Non lo so. Ecco, ho detto a un certo punto, forse è esistito (potrebbe essere esistito) un primitivo con la mia stessa passione per la pittura, per esempio. La pittura già esisteva, nell’anno due. O ancora prima. Meglio. Nella preistoria.

Lui sulla roccia, milioni di anni fa, io sul blocco collato da acquerello Arches da trenta euro dieci fogli, ma forse, io e quel fratello antichissimo, avevamo provato sentimenti simili nel gesto del dipingere.

Questo non l’ho detto a lei, ma ho sempre avuto una fissazione per l’uomo primitivo “primitivo”.

Per l’uomo, per la precisione, che per primo tracciò un segno sulla parete di una grotta dell’era paleolitica (attenzione, da qui in avanti i termini scientifici a casaccio subiranno un incremento del sessantacinque per cento).

Ho immaginato spesso questa scena: la famiglia, che ancora famiglia non era, il gruppo, diciamo, di uomini e donne e bambini delle caverne, il fuoco in mezzo a loro, ginocchia sbucciate di gambe incrociate a fare ombre a ics sulle pareti. Teste grosse, arcate sopracciliari forti e bronci e braccia conserte.

Nel fuoco, appoggiato per metà, uno stecco di legno. Uno degli uomini ci ha infilzato una salamandra per arrostirla (immagino che sia una sera speciale, quindi: salamandre per tutti. Lusso.). Sgranocchia questa salamandra in bocca e poi si accorge che la punta dello stecco spiedo gli ha macchiato una mano. Si guarda la mano, il grosso palmo calloso annerito di fuliggine. Guarda i commensali. Sgranocchiano, anche loro, salamandre. Lusso.

Nessuno gli fa caso. Torna a guardarsi la mano aperta e quel nero polveroso che prima non c’era. Poi fa un esperimento: schiaffone al suo vicino di cena. Schiaffone sonoro in tonalità bassa, come lo sono le labbrate di chi ha manone particolarmente one. Tutti ridono, tranne uno.

Sulla guancia dell’uno c’è l’impronta di una mano nera. Miracolo, stupore.

L’uomo dello stecco e dello schiaffo riprende il legno annerito, trasferisce di nuovo sulla mano la fuliggine, altro schiaffo, altro segno, altro riso (è l’inizio del mondo dello spettacolo, questo, credo) e poi prende lo stecco proprio, l’origine del nero. Si volta alla parete di roccia, e la fiamma del fuoco gli pinge la groppa di un arancio tremulo.

Il braccio si alza, con lo stecco, come un pennello in mano e tutti ora stanno zitti e guardano: cosa farà?

Poi traccia, quest’uomo, il primo segno di un uomo.

Il primo disegno di un uomo.

Stupore intorno. Una nuova era.

Bene, nella mia immaginazione il tipo in questione poi comincia a riempire di disegni di cazzi tutta la parete della grotta, ma questa è un’altra questione.

Però parlando con lei, a un certo punto, ho detto questa cosa, che forse in passato erano esistite persone molto simili a noi, con simili desideri e gusti e atteggiamenti e vizi.

Era una questione di probabilità.

Insomma, tutti noi, probabilmente abbiamo un sosia. Il mio lo incontrai a vent’anni, per esempio, per la strada, ad Amsterdam. Pensavo di camminare verso la vetrina a specchio di un negozio, invece era lui. Era pure italiano, ci fermammo uno di fronte all’altro, come davanti allo specchio dei vestiti diversi.

Quindi, dico, se esiste in probabilità un sosia per ognuno di noi, addirittura nell’arco brevissimo della nostra esistenza in vita, possiamo immaginare che quasi delle copie siano già vissute. Quindi, stavo dicendo questo: immaginiamo i noi stessi dell’anno zero o dell’anno “meno tremila”.

Questi noi stessi dimenticati vivevano nel mistero. Il sole era un mistero, la sfericità della terra inimmaginabile, le profondità del mare, insondabili.

Perché volavano gli uccelli e come faceva la luce a frantumarsi sull’acqua? Perché il dio dell’addome un giorno smetteva di soffiarvi il suo respiro e ci toglieva la vita e quale alternativa poteva esserci mai all’allontanare le femmine quando avevano il sangue, portatore di sventura?

Quel me antico, si confrontava con l’incomprensibile aggressione della malattia, con il miracolo del respiro e più sporadicamente, con il grido del cielo nei tuoni e nei fulmini e nel ghiaccio che cade dalle nuvole, nelle notti in cui strisce di fuoco attraversano tutto l’arco della volta celeste, sopratutto in agosto. Quando ancora non esisteva l’agosto.

Devo andare un momento in cucina, venti anni fa.

Venti anni fa, avevo messo in cucina un microscopio. Sotto la lente del microscopio avevo messo una pulce. Avevo cani e gatti in quantità venti anni fa e quindi anche se avessi voluto mettere un qualsiasi altro organismo sotto la lente probabilmente mi sarei trovato con un altro organismo e una pulce. Questione, di nuovo, di probabilità.

Quindi avevo una pulce e ne guardavo l’ala.

La mia cucina di venti anni fa stava al piano terra di una casa in campagna. Quella casa era stata una chiesa antichissima e ancor prima una stazione di posta romana. Pure un cimitero, mi dissero, nel medioevo. Davanti alla casa c’era un fico cresciuto in una buca di bomba d’aereo della seconda guerra mondiale.

In giardino avevo montato questo telescopio arancione. Non era un grande telescopio, una cosa amatoriale, non ricordo gli ingrandimenti, ma in quel periodo m’ero preso una fissa astronomica e leggevo gli atlanti delle stelle e mi vantavo nel riconoscere le costellazioni, nel distinguere le nove dai pianeti. Mi piaceva moltissimo la parola “eclittica”, questa sorta di proiezione dell’equatore nello spazio, dove stanno adagiati, appunto, gli altri pianeti del sistema solare.

Quella notte ero stato a caccia di Saturno e, stranamente, lo avevo trovato.

Se non avete mai visto Saturno con un telescopio, ve ne prego, fatelo.

Saturno è un pianeta gigante e bellissimo. È un gigante gassoso, che se mettiamo Gassoso maiuscolo fa una bellissima impressione: il gigante Gassoso.

Ah, come tutti sapete, questi famosissimi anelli intorno e pure una serie di satelliti, che stanno tutti docilmente sullo stesso asse (che credo proprio sia l’eclittica di Saturno, amo questa parola). Con il mio telescopio economico potevo vederlo.

Potevo vedere Saturno, il delicatissimo anellino che lo circonda e i puntini dei satelliti intorno. Il mio era un telescopio economico, l’ho precisato, per cui non immaginate queste cose che si vedono sul sito della Nasa, con i colori e le macchie delle tempeste, niente di tutto questo. Nell’oculare del mio telescopio Saturno era una pallettina minuscola, che però pur in quelle dimensioni ridotte non rinunciava a una sua minutissima solidità. Gli anelli, che nella risoluzione del mio mezzo, si risolvevano in uno soltanto, davano una sensazione di precisione infinitesimale. Un cerchietto perfetto. E poi, su una linea unica, i microscopici satelliti.

La prima volta che ho visto Saturno, con il telescopio, la prima volta che sono riuscito a trovarlo, quel figlio di puttana, dopo serate passate a convincermi di averlo trovato guardando altro e dicendomi che no, era impossibile vedere gli anelli con il mio telescopio di merda, insomma, la prima volta che invece non ho sbagliato i calcoli e sono riuscito a puntarlo e trovarlo davvero, ho pianto.

Questa sua precisione di forme, questo suo essere teneramente piccolissimo nel mirino, era irresistibile se paragonata alla consapevolezza delle sue dimensioni reali. Questa vista dalla distanza mi aveva commosso.

Quel giorno quindi, ero in cucina ed ero pronto.

Avevo puntato Saturno, lo avevo guardato per un po’ e poi via, a corsa fino in cucina, microscopio, pulce, ala di pulce.

Di nuovo, fuori, qualche istante per riabituare la vista all’oscurità e di nuovo: Saturno. Ancora: Pulce. Corsa. Saturno. Pulce.

Facevo questo. Andavo da un estremo all’altro, stupendomi e pian piano, senza rendermene conto, provocandomi una vertigine che non avrei scordato mai più.

Arrivò infatti un momento in cui il mio stupidissimo passare dall’infinito piccolo all’infinito grande aveva definito come una corda tesa tra due punti enormemente distanti. Facevo il corridore su quella corda tesa e ci fu un momento (me lo ricordo così, con il tempo al passato remoto) in cui mi sentii nella metà di questa strada che andava dall’ala della pulce agli anelli di Saturno. In un istante mi ridussi a nanetto da giardino. Le stesse dimensioni, e poi ancora, da dove si trovavano i miei occhi vedevo le punte dei piedi dei nanetti da giardino, ancora giù. Ancora più piccolo.

Stavo per prendere una gropponata in terra dalla vertigine provata.

Quel giorno scoprii una cosa molto importante sulle pulci.

Torno ai tempi antichi ed immagino il me stesso di altra era a confrontarsi con tutte le cose che non sa, a trarne conclusioni, tutte errate, probabilmente.

Perché la palla di fuoco sì alza sui campi, e perché si corica dal lato opposto e perché ci scalda quando c’è e ci raffredda, succhiando via tutto il calore quando se ne parte. Globo crudele e dolcissimo. Entità. Dio.

Parlando le ho fatto questo esempio, sostenendo insomma che non dovremmo mai pensare che il nostro tempo sia il tempo definitivo, il tempo della comprensione.

Sicuramente adesso fraintendiamo, crediamo di aver compreso, ci sbagliamo, perché il corso del tempo non è alla sua fine, forse è solo all’inizio o forse il Signor Tempo se ne sbatte ampiamente i coglioni di concetti come inizio e fine.

Con lei, parlavamo di questo perché sono scettico. Non credo alle cose. Tutte le volte che in una frase è necessario utilizzare il verbo “credere” mi trovo a disagio. Poi non so perché, magari per reazione al 37 di maturità del liceo artistico, o al non saper neppure fare le divisioni a due cifre, ma ho una passione per il metodo scientifico.

In questi giorni, spesso mi trovo in discussioni con persone che credono alle cure del cancro con il bicarbonato, altre che credono a complotti segreti, altre che credono che tutto sia scritto, altre che credono che se fai il bene ti torna il bene e se fai il male..

A me piace il metodo scientifico. Mi piace la riproducibilità. Immagino il mio sosia caratteriale dei tempi antichi che ha imparato ad accendere il fuoco. Ora sa come si fa. Lo può insegnare ad altri. Trasmette la conoscenza ed il metodo. Quel fuoco, date le medesime condizioni ripetute, si accenderà.

Ecco, se quel me stesso antico mi avesse somigliato davvero, penso che si sarebbe fermato al fuoco, al non sapere niente del fuoco, e non gli avrebbe dato alcun senso aggiunto, non avrebbe “creduto” che se la luna è piena il fuoco si accende prima. Non si sarebbe posto il problema. Avrebbe detto: questo è il fuoco. Questo adesso so.

E avrebbe, intanto, continuato a fare esperimenti con altro, fino al giorno in cui, forse, avrebbe potuto dire, questa è la sabbia. La sabbia con il fuoco, mi da il vetro.

Ogni giorno mi trovo a discutere di questi argomenti, me le vado a cercare, lo so. Ho anche amici che “credono” alle cose, e gli voglio bene lo stesso.

Eppure sono convinto che basterebbe ricordare di essere il possibile sosia di quell’uomo antico, con le stesse convinzioni errate ma con un unico metodo per controllarle e definirne qualcuna, passo dopo passo, nei millenni, in un percorso lento, delicato, che porterà a nuove comprensioni e a nuovi orizzonti incomprensibili.

Un giorno comprenderemo la morte forse. La spiegheremo. E ci sarà altro di fronte a noi, forse, di altrettanto spaventoso. Ogni energia spesa, nel frattempo, a “credere che”, mi sembra sprecata.

La cosa che ho saputo sulle pulci è che le pulci, hanno le pulci.

Gipi Pacinotti

Disegnatore e regista, collabora con la Repubblica e Internazionale. Con il suo graphic novel Appunti per una storia di guerra ha vinto il premio Goscinny al festival del fumetto di Angoulême. Il suo primo film si chiama L'Ultimo terrestre.