Il dissing del PD e l’arte del rap

Questa settimana in rete è nata una polemica tra rottamatori e rottamanti, tra i giovani e la vecchia guardia. Ma sarebbe più corretto dire tra new school e old school, come usano i rapper, visto che è di loro che stiamo parlando. La miccia che ha acceso il tutto è stata un’intervista a Paola Zuckar, manager del nuovo rap di successo da Fabri Fibra a Marracash, al termine della proiezione di The Art Of Rap, documentario del musicista americano Ice T che racconta il genere musicale con l’obiettivo dichiarato di rendere all’hip hop il valore artistico che si merita.

Alla domanda del giornalista di una web tv se fossero maturi i tempi per un documentario sulla scena rap italiana, la Zuckar ha risposto che quello degli anni Novanta – per molti “l’età dell’oro” dell’hip hop italico – non fosse davvero all’altezza, bensì un esperimento un po’ grossolano, e che solo oggi si può parlare di una vera nascita del genere in Italia. Nonostante la successiva smentita della manager che se la prendeva con i tagli ad hoc del servizio su un discorso più ampio, il video della Zuckar ha fatto il giro della rete scatenando accese risposte da parte di molti iniziatori del genere nostrano, da Esa a Dj Skizo, e dai loro fan. Il comune denominatore delle risposte dell’old school è stato un grosso Vaffa alla mancanza di rispetto dello Zuckar, e la riaffermazione dell’importanza degli anni Novanta del rap, soprattutto per l’attitudine genuina e non compromessa, lontana anni luce dalle regole commerciali dei loro fratelli minori.

Non voglio entrare nel merito della questione Zuckar, ma prenderla ad esempio per parlare di altro. Da sempre nel rap, italiano e non, è viva l’arte del dissing – ovvero la trasformazione di offese personali e prese in giro in rime su basi ritmate – che ha il suo epigono nelle esibizioni sul palco di rapper che si insultano l’un l’altro improvvisando al microfono nelle cosiddette battles, battaglie, dove per vincere non servono i cazzotti ma basta rappare meglio dell’avversario. Il dissing fa parte del genere, ed è anche divertente finché, come per il football, tutto rimane sul campo di gioco. Fuori invece sono semplici (e spiacevoli) insulti, che trovano nei social network e nei forum di internet terreno fertile per attecchire e moltiplicarsi.

Il fatto che questa fresca polemica abbia chiamato in causa rottamatori e rottamati fa nascere un facile ma pericoloso parallelismo con il dibattito sulle primarie del Partito Democratico. La battaglia di dissing tra Renzi e D’Alema (e mettiamoci pure Vendola) non ha nulla a che fare con il rap, o meglio, ha sì a che fare, ma solo nel suo lato peggiore, quello degli insulti gratuiti e ripetuti senza né rime né il sostegno di una base ritmica ad hoc. È uno spettacolo che, come a me, non piace a molti che hanno a cuore le vicende e le sorti del Pd.

Eppure, mi chiedevo, se si scannano ci sarà un motivo e quel motivo sarà prendere voti, à la guerre comme à la guerre, creando e rinforzando le proprie fazioni. Un mio amico mi diceva che la politica non è una cosa da signorine, ma non mi bastava, mi faceva arrabbiare ancora di più. Qualcosa non mi tornava, non riuscivo a capire se il mio fastidio per queste continue liti interne fosse solo un capriccio di fronte alla realtà della lotta politica. Mi sentivo escluso da questo inizio incazzato di corsa alle primarie.

Poi ho visto al cinema The Art of Rap. Ice T intervistava tutti, quelli della vecchia e della nuova scuola, omoni sorridenti e fieri della propria professione cui veniva chiesto che cosa era davvero l’hip hop. E se e in che modo il rap fosse un’arte. Nonostante molti di loro venissero dal ghetto e non fossero andati all’università, nelle risposte si respirava un’aria di profonda saggezza filosofica – come quella dei vecchi bluesman americani – dettata unicamente dall’esperienza personale.

A un certo punto Ice T chiedeva ad un rapper della old school – doveva essere Krs One o i Public Enemy, non ricordo con precisione – come mai il rap a differenza del jazz o del blues non fosse stato riconosciuto come arte ma semplicemente come un fenomeno musicale e di costume. L’intervistato iniziava rispondendo che i rapper hanno avuto sempre la fortuna di parlare ad una comunità e di farne parte. Dall’esterno erano riconosciuti come una comunità coesa in grado di influenzare la società americana. All’interno invece aveva vinto una forma d’individualismo esasperato, che aveva portato i musicisti a farsi guerra l’uno con l’altro. Questo nel breve periodo aveva funzionato, il campo di battaglia era grande e c’era spazio per tutti: le liti creavano attenzione, fidelizzavano i fan all’uno o all’altro artista. Alla lunga però questa continua battaglia aveva frammentato la comunità, e soprattutto distrutto la storia del movimento rap. Nessuno che fosse stato chiamato a ritirare un premio ai Grammy Award avrebbe mai ringraziato quelli da cui aveva imparato a fare rap, anzi sarebbe salito sul palco come se fosse stato il primo e unico a fare quel tipo di musica. C’era solo il nuovo, concludeva il saggio rapper: «Senza storia, senza sentire e far sentire agli altri che si fa parte di un percorso, senza ringraziare quelli prima e dopo di noi, senza tutto questo è impossibile per il rap essere riconosciuto come arte».

Ecco, mi piacerebbe che anche il Pd – che è vecchio quanto l’hip hop! -tenesse in considerazione la propria arte (che poi è la politica). E che ringraziasse sul palco chi c’è stato prima e chi verrà dopo, non per una retorica del volemose bene, ma pensando al lungo periodo, quando dopo Renzi ci sarà sicuramente qualcun altro di nuovo, ma molti vorrebbero che ci fosse ancora anche il Partito Democratico. Con tutta la sua storia.

Giovanni Robertini

Vive a Milano. Come autore televisivo ha fatto parte del gruppo di brand:new e di Avere Ventanni per Mtv; de L'Infedele e di Invasioni Barbariche (dove si trova ora) per La7. Ha pubblicato il libro "Il Barbecue dei panda - L'ultimo party del lavoro culturale"