Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?)

Nel dibattito su Israele e Palestina, i contributi si articolano fra grandi ricostruzioni storiche e immediata cronaca quotidiana. Questo compendio vuole essere una via di mezzo, cioè un tentativo di inquadrare quello che sta succedendo in questi giorni per chi non ha familiarità col tema. Data la vastità dell’argomento, lo dividerò in capitoli per concentrarmi su un argomento alla volta, in modo da poter raccogliere materiale, analizzare fatti e considerare l’attualità meglio che in un unico scritto-fiume.

Capitolo 1 – La strategia d’Israele (leggi qua)
Capitolo 2 – Israele e i civili (leggi qua)
Capitolo 3 – Cosa succede ora a Gaza? (leggi qua)
Capitolo 4 – Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?)

Nei giorni passati sono arrivate notizie drammatiche da Gaza: il dolore per la morte di tante persone anticipa e prescinde qualunque considerazione politica. L’obiettivo di questa rubrica è tentare di capire – di analizzare quello che succede e perché succede – da un punto di vista strettamente razionale, dato che di emotività se ne legge già molta. Ci tenevo, però, ad aggiungere queste parole.

Prima di parlare di come questa guerra influenzerà il processo di pace, ho pensato fosse utile esaminare il comportamento del fronte palestinese. Una precisazione: se avevate letto il terzo capitolo  prima dell’invasione di terra, sappiate che ho aggiunto delle spiegazioni su ciò che succede ora che l’invasione è cominciata. Se vi interessa, potreste trovare utile ritornarci prima di continuare la lettura: l’aggiornamento si trova in fondo all’ultimo post.

La domanda che più ho ascoltato in questi giorni è: «perché Hamas si comporta così?». Il sottinteso è: «da un punto di vista razionale, che senso ha fare di tutto per arrivare allo scontro militare con uno degli eserciti più potenti al mondo?». Per provare a darsi una risposta a questa domanda bisogna concentrarsi su quattro punti: la natura di questo conflitto; la natura di Hamas come organizzazione politico-religiosa; la situazione interna alle fazioni palestinesi; la situazione internazionale con Egitto, Qatar, Iran e Stati Uniti.

Nel terzo capitolo abbiamo già parlato di come il conflitto arabo-israeliano sia, da sempre e drammaticamente, un gioco al rialzo in cui ciò che rende più docile il nemico non è la disposizione al compromesso, ma la capacità di spaventarlo. Questo meccanismo ha portato all’escalation di questi giorni, in cui chi non risponde alla forza con ancora più forza tradisce la propria debolezza. Per questo, dopo il rifiuto di Hamas del cessate il fuoco proposto dall’Egitto, avevo scritto su Twitter: “Se davvero Hamas rifiuta la tregua, Israele è costretto a entrare via terra: altrimenti mostra – per la prima volta – paura del loro arsenale”.

Oggi sappiamo che è all’indomani di quel rifiuto che il Governo israeliano ha autorizzato l’operazione. È molto difficile immaginare che l’accettazione della tregua da parte d’Israele non fosse una mossa strategica: la proposta egiziana non prevedeva il disarmo di Hamas, una condizione che difficilmente Israele avrebbe accettato. Ma allora perché non accettare la proposta di tregua e “vedere” il bluff d’Israele? Perché continuare il gioco a rialzo al potenziale costo di tante vite e di un’inevitabile distruzione delle proprie infrastrutture militari (e non solo)?

Non c’è dubbio che Hamas sperava di impaurire gli israeliani, per i quali l’eventualità di un intervento di terra comportava la verosimile messa a repentaglio dei proprî soldati che, con i soli bombardamenti, erano relativamente al sicuro. Questo non è però sufficiente a spiegare una scommessa così alta come il rifiuto di una tregua che era appoggiata da Fatah, dall’Egitto e dalla Lega Araba. Ci sono altri fattori che aiutano a contestualizzare quella che, vista così, sembra una mossa della disperazione.

Primo fra tutti, l’isolamento in cui si trova Hamas da quando in Egitto è al potere al-Sisi e i Fratelli Mussulmani sono stati messi al bando. Hamas era molto vicina alla Fratellanza, dopo esserne nata come branca palestinese. Questa evoluzione non soltanto ha privato Hamas di un alleato importantissimo – quello che ha sempre fatto da negoziatore delle tregue con Israele – ma ne ha anche limitato consistentemente l’approvvigionamento. Il governo dei Fratelli Mussulmani chiudeva più di un occhio rispetto alla costruzione di tunnel, e al passaggio di materiale, fra l’Egitto e Gaza; il Governo di al-Sisi, che ha molto interesse a indebolire gli alleati del suo principale nemico interno, ha adottato una politica completamente diversa, e questo ha fatto sì che per l’approvvigionamento di materie prime Gaza tornasse a essere completamente dipendente da Israele, mentre l’unico canale di importazione di armi non artigianali veniva significativamente ristretto.

La differenza è stata chiarissima in questi giorni di guerra, nei quali l’Egitto è stato eloquentemente critico nei confronti di Hamas. Non soltanto il ministro degli esteri egiziano ha dato la colpa a Hamas dell’invasione israeliana, ma tutte le trattative di tregua si sono svolte con Fatah come partner senior di Hamas, senza l’accordo di Hamas stessa. L’Egitto vuole rafforzare Fatah e delegittimare Hamas, mentre Hamas fa l’opposto: è per questo che finora Hamas ha rifiutato non soltanto i tentativi egiziani di arrivare a un accordo, ma anche l’Egitto di al-Sisi come interlocutore. È significativo ricordarsi che, 2 anni fa, un accordo di cessate il fuoco del tutto simile a quello di martedì scorso l’aveva proposto l’Egitto guidato da Morsi (cioè dai Fratelli Mussulmani), e in quel caso Hamas aveva accettato.

Questo isolamento ha costretto Hamas a cercare un accordo con Fatah, formando un governo di unità nazionale che ha permesso a Hamas di pagare gli stipendî dei dipendenti pubblici, e più in generale di uscire dall’isolamento internazionale (USA e UE hanno accettato di collaborare col Governo di unità nazionale, diversamente dal boicottaggio che riservavano a quello di Hamas a Gaza). Fatah, dal canto suo, si è trovata in una posizione di relativa forza, come in politica interna non accadeva da prima delle elezioni del 2006 (basta pensare che il governo di unità nazionale è guidato da un Primo Ministro di Fatah, e non presenta neanche un membro di Hamas). Trovatasi in questa posizione, ha usato Hamas come strumento di pressione su Israele. Avendo rinunciato alla violenza, Fatah usa armi diplomatiche e legali per cercare di portare Israele a fare le concessioni necessarie ad arrivare alla pace. Dopo mesi di nuove trattative, quando Netanyahu ha dimostrato una volta di più di non volere percorrere i passi necessari, Fatah ha stretto l’alleanza con Hamas: come a dire – se non volete la pace, non abbiamo ragione di fidarci di voi.

Naturalmente Hamas non è contenta di essere in questa morsa, e questo nuovo conflitto ha portato le due fazioni palestinesi a uno scontro su più fronti. Oggi Fatah si trova in una posizione molto particolare: prima dell’invasione di terra ha cercato di farsi campione del cessate il fuoco egiziano in modo da prendersi i meriti della fine della guerra. L’Egitto spingeva per questa soluzione e anche per questa ragione Hamas ha rifiutato la soluzione. Ora che l’invasione di terra, e tutte le morti che ne derivano, non può essere più scongiurata, Fatah si trova nella posizione paradossale in cui, diplomaticamente, ha tutte le ragioni per sperare in una schiacciante vittoria di Israele che costringa Hamas alla resa senza condizioni. Qualunque concessione ottenuta da Hamas attraverso mezzi militari sarebbe un’enorme sconfitta per la strategia di Abu Mazen, oltre che un’ipoteca sulla possibilità di ricostruire una propria influenza con i palestinesi a Gaza. Se, invece, Hamas fosse tanto indebolita da essere nell’impossibilità di porre delle condizioni, Egitto e Israele investirebbero certamente Abu Mazen del ruolo di interlocutore, restituendogli la veste di paciere che aveva tentato di imporre prima dell’attacco di terra.

Da diversi anni Fatah adotta una strategia legale, più che militare, per tentare di fare leva sulla comunità internazionale così da convincere Israele ad arrivare alla pace: è quello che è successo in occasione del riconoscimento dello Stato palestinese all’ONU, una grande vittoria per Fatah. Anche in questa occasione, lo stesso scontro si è riprodotto: Abu Mazen in televisione ha domandato causticamente «ma cosa pensate di ottenere lanciando dei missili?». La considerazione non è soltanto pragmatica, per le ragioni appena dette (se la strategia dei missili ha successo, Fatah ha fallito strategia), ma anche perché questa strategia mina quella di Fatah: Fatah vorrebbe usare la stessa leva legale in sede internazionale e tentare di incriminare Israele per le sue azioni, ma sa che la presa a bersaglio indiscriminato dei civili (nonché l’uso di scudi umani) da parte palestinese rendono l’accusa insostenibile, come spiega l’inviato palestinese al Consiglio Onu per i Diritti Umani. Hamas è convinta che continuare a lanciare razzi garantisca le condizioni stesse che rendono possibili il lancio di razzi, indebolendo l’autorità di Fatah.

Non bisogna dimenticare, poi, che anche il fronte interno a Gaza è molto frammentato. Negli ultimi tempi, il Medio Oriente è il teatro della lotta fra Qatar e Iran per assicurare la propria influenza all’interno dei movimenti islamisti. L’Iran è stato per anni il più importante sponsor di Hamas, ma la contraddizione fra sunniti e sciiti – che era sempre stata presente sottotraccia – è venuta fuori prepotentemente in Siria, dove gli alleati naturali di Hamas sono in guerra con l’Iran. Per questo Hamas si è avvicinata al fronte qatariota (a cui fanno riferimento i Fratelli Mussulmani), perdendo così il suo principale alleato, mentre l’Iran ha stretto sempre più i legami con la Jihad Islamica, il principale movimento islamista che compete a Hamas il potere nella Striscia. È in questo quadro che si inscrive la sempre maggiore difficoltà di Hamas di controllare tutti i gruppi islamisti nella Striscia e il conseguente scollamento fra la leadership politica di Hamas e l’ala militare, le Brigate al-Qassam, che stanno orientando le sorti del conflitto con la propria intransigenza.

Queste sono le considerazioni pragmatiche, di carattere politico e strategico, che animano le scelte di Hamas. C’è un altro fattore – ben meno pragmatico – necessario a completare il quadro. Lo aggiungo in questa postilla, in modo che chi fosse interessato soltanto a un’analisi logico-strategica (cioè il piano, volutamente asettico, sul quale è scritta questa guida) possa interrompere qui la lettura.

– Postilla, la natura di Hamas
Per comprendere fino in fondo delle scelte apparentemente incomprensibili o avventate di Hamas, bisogna capirne la natura profondamente confessionale, come la fibra religiosa permei l’ethos del Movimento Islamico di Resistenza. Per molti di noi è impossibile immaginare la condizione di chi sia convinto che Dio abbia dei precetti e delle aspirazioni immediate sulla vita di ciascuno. Perciò siamo portati a declinare strategie e motivazioni di questo tipo in razionalizzazioni più prossime alle nostre categorie politiche. Ma questo lascia un difetto di traduzione: quanto ha senso usare i criterî che usiamo nel quotidiano per definire Hamas un partito dell’estrema destra religiosa?

Hamas è un movimento che, con piglio dittatoriale, cerca di imporre la Legge islamica nella Striscia di Gaza. Mette all’indice alcuni libri, vieta concerti, annulla attività sportive o chiude locali perché non vi è garantita la segregazione dei sessi. ONG che operano per fornire supporto ai bambini palestinesi vengono chiuse perché permettono la fruizione sia ai maschi che alle femmine. Alle donne è vietato ballare o andare in motorino dietro a un uomo. C’è una polizia religiosa (il Comitato per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio). Conosco persone che sono state picchiate perché passeggiavano (camminavano al fianco) con una ragazza che non fosse la moglie.

Al contrario di ciò che dice l’atteggiamento paternalistico a cui siamo abituati, si tratta di persone che ci credono, non di persone che usano la religione ai proprî fini. È lo stesso errore in cui incorreva chi, nei primi anni 2000, sosteneva che il terrorismo palestinese fosse causato da povertà o mancanza di istruzione, prima di scoprire che gli attentatori suicidi erano più educati e più ricchi degli altri palestinesi. Quando sentiamo Hamas invitare gli abitanti delle case che saranno bombardate dagli israeliani a rimanere lì al costo della propria vita, o sentiamo membri di Hamas rivendicare pubblicamente questa strategia come manifestazione del Jihad, dobbiamo capire che tale disposizione al sacrificio (della vita propria e dei proprî familiari) è integrale a quell’ideologia religiosa. Non è soltanto dei “poveracci”, ma delle cariche più importanti: come Nizar Rayan, quello che per molti versi era il numero uno di Hamas a Gaza, che durante la prima guerra a Gaza, saputo dell’imminente bombardamento della propria casa, convocò le sue 4 mogli e i suoi 11 figli (uno era già morto in un attentato suicida) per morire come martiri.

Per questo, nei nostri tentativi di razionalizzazione delle scelte di Hamas bisogna tenere conto della commistione fra strategia militare e ideologia religiosa che anima quelle scelte. È importante per capire come Hamas si senta nella posizione di dettare delle condizioni preliminari al cessate-il-fuoco, in quello che sarebbe un paradosso, dato che i palestinesi sono quelli che subiscono – largamente – più vittime degli israeliani. Hamas, nel porre queste condizioni, sta inviando a Israele (e al mondo) il messaggio che, nonostante questa sproporzione, quelli preoccupati devono essere gli israeliani. È importante per capire come la netta supremazia militare israeliana non spinga Hamas ad adottare una politica più realista. È importante per capire come l’analisi razionale, che prescinde dall’analisi dei presupposti trascendenti di Hamas, non può aspirare all’interezza della comprensione.

Naturalmente il fatto che la scorta ideale di un movimento presenti questa componente non vuol dire che ciascuna delle rivendicazioni di quel movimento, come la fine del blocco su Gaza, sia sbagliata. È solamente uno strumento necessario a capirne le aspirazioni.

Nel prossimo e ultimo capitolo parlerò, finalmente, di cosa ne sarà del processo di pace dopo questa guerra.

Capitolo 5 – Israele e Palestina, e ora che succederà? (leggi qua)

Giovanni Fontana

Dopo aver fatto 100 cose diverse, ha creato e gestisce Second Tree, ONG che opera nei campi profughi in Grecia. La centounesima è sempre quella buona. Il suo blog è Distanti saluti. Twitta, anche.