I Verdi dovrebbero ripartire da Alex Langer

Perché i Verdi in Italia non sfondano? Perché a differenza di quanto accaduto in altri Paesi alle recenti elezioni europee dove hanno registrato consensi altissimi da noi non si schiodano da percentuali quasi infinitesimali? Perché in Germania arrivano addirittura al 20,5%, in Irlanda al 18%, in Finlandia al 16%, in Austria al 14%, in Francia al 13,5% mentre in Italia ottengono appena il 2,3%? Perché mentre cresce un’attenzione e una sensibilità diffusa per i temi ambientali perlomeno da parte delle imprese (come pochi giorni fa ha anche certificato il rapporto Istat 2019 rilevando come le cosiddette “ecoindustrie” ormai abbiano un giro d’affari di 36 miliardi di euro pari quasi al 2,3 per cento del Pil) i Verdi non sono in grado di intercettarle politicamente?
Molti osservatori se lo sono chiesti subito dopo il voto e continuano a chiederselo ancora in questi giorni, dando risposte senza dubbio interessanti.
Mi limito a riprenderne alcune:

– Per ragioni culturali e politiche. Pietro Ignazi (29 maggio, la Repubblica): «Sul primo versante abbiamo un rapporto rapace e aggressivo verso la natura che, per quanto affascinante, continuiamo a considerare matrigna… Sul versante politico, da un lato grava la pessima prova che i verdi hanno fornito quando erano al governo, sia a livello nazionale che locale (con la vistosa eccezione di Francesco Rutelli), dall’altro la concorrenza che è stata fatta loro da più di un decennio dai grillini che hanno nel loro dna una chiara componente ambientalista e che a livello locale si sono mobilitati su varie campagne, note – Tav e Ilva – e meno note»;

– Per via del cosiddetto “codice Kleenex” e incapacità di unire idealismo a pragmatismo. Luigi Manconi (31 maggio, la Repubblica): «La mancata riforma protestante non ha introdotto nel carattere nazionale il connotato della responsabilità verso sé, verso gli altri e verso il futuro… Questo deficit si ritrova nell’aneddoto – allo stesso tempo luogo comune e paradigma – del Kleenex che, lasciato cadere per terra, suscita al più una tacita riprovazione in una città italiana e invece scandalo, multa e magari arresto in una località del centro e del Nord Europa… Il tratto saliente dei Verdi tedeschi è sempre stato la sagacia politica: la radicalità dell’analisi e degli stili di vita conseguenti non hanno mai fatto velo al realismo politico. Un’idea mai meschina del pragmatismo e una sofisticata intelligenza nella mediazione… L’ambientalismo italiano non ha saputo fare questo, incerto tra un radicalismo senza negoziazione e un riformismo localistico, incapace di visioni generali»;

– Per mancato senso di legalità e difficoltà a parlare a tutti. Angelo Bonelli (1 giugno, la Repubblica): «La proposta ecologista che è portatrice prima di tutto di legalità trova una sua difficoltà a costruire consenso in luoghi dove una casa su due è stata edificata abusivamente…Un’autocritica va fatta se vogliamo guardare all’Europa, i Verdi non devono commettere più gli errori del passato e rappresentarsi come una forza di sinistra. Devono invece parlare a tutti i cittadini… essere alleati delle scienze e dell’innovazione, costruire confronti con il mondo delle imprese per rendere desiderabile e convenente la conversione ecologica, fare della lotta alla povertà e della difesa degli ultimi la priorità dell’azione politica e programmatica»;

– L’ambientalismo in Italia non fa notizia. Sergio Harari (20 giugno, Corriere della sera): «Con pochissime eccezioni l’ambientalismo nel Belpaese non ha mai fatto notizia né tantomeno attecchito, Verdi e similia non hanno mai avuto gran fortuna e quando hanno avuto un qualche spazio politico se lo sono lasciato accuratamente sfuggire (chi ricorda il ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio?), mentre gli altri partiti non ci hanno mai ceduto davvero»;
Troppo collateralismo con la sinistra, questione anagrafica e andamento in ordine sparso delle associazioni ambientaliste. Sergio Rizzo (21 giugno, la Repubblica): «Le innumerevoli varianti dei Verdi sono sempre state collaterali alla sinistra e questo ha impedito l’affermazione di un partito robusto in grado di camminare con le proprie gambe. A differenza, per esempio, della Germania dove i Verdi, sganciati da qualunque logica di alleanze, hanno costruito una valida alternativa persino alla sinistra. Va detto che in Italia ha pesato anche l’anagrafe: alle tematiche ambientaliste sono tipicamente sensibili i giovani, la cui partecipazione al voto in Italia è assai inferiore a quella degli anziani. Infine le associazioni ambientaliste procedono in ordine sparso, perennemente allergiche alla costituzione di una piattaforma comune. Il risultato è che la politica italiana occhieggia più volentieri con abusivismo e speculazione edilizia che con la difesa dell’ambiente, per il semplice fatto che portano più voti».

Sono tutte osservazioni che in linea di massima condivido, tranne in alcuni passaggi quelle del coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli, sia perché non credo che la proposta ecologista sia (e debba essere) portatrice prima di tutto di legalità (è come dire che un politico debba essere onesto, questo è un prerequisito non certo un fine) e poi perché le imprese non aspettano certo la politica per farsi persuadere che la conversione ecologica possa risultare conveniente, lo stanno facendo già da sole, come rileva l’Istat, perché è il mercato che dimostra di apprezzare una simile scelta.
Ma non è questo il punto. La questione centrale a mio avviso è un’altra e cioè che in nessuna delle opinioni dei cinque osservatori (che naturalmente sono molto più articolate negli articoli che ho menzionato e che per forza di cose ho potuto solo brevemente estrapolare) si ravvisa lungimiranza, un pensiero lungo. Evocano tatticismi, alleanze politiche, pragmatismo: tutto bene, giusto tenerne conto in futuro, ma la visione (che pure Manconi evoca) dov’è?

Per questo i Verdi in Italia non hanno mai sfondato ottenendo al massimo il 3,7 per cento dei voti nel 1989. Perché non hanno mai avuto (e con loro tanti osservatori) una convincente visione del futuro, mai uno sguardo profetico.
Solo un militante dei Verdi, eletto al parlamento europeo nel 1989 dove divenne primo presidente del neo costituito gruppo Verde, quello sguardo ce l’aveva perché era lui stesso in un certo senso un profeta e un visionario: Alex Langer. Come succede però con tutti i visionari si stenta all’inizio a comprendere la dirompente portata delle loro riflessioni. E si soffre pure, come diceva Paolo VI a proposito di un altro grande visionario quale fu don Primo Mazzolari, presbitero della prima metà del Novecento che seppe, tra le altre cose, anticipare alcune istanze del Concilio Vaticano II: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti».

Langer ha sofferto molto in vita, al punto di arrivare a togliersela impiccandosi a un albero di albicocco a Pian dei Giullari il 3 luglio 1995. E negli anni sono diventati sempre più numerosi coloro che hanno sofferto imparando a conoscerlo attraverso i suoi scritti e a scoprirne l’umanità, l’umiltà, lo spessore politico, ambientalista, etico. Io tra questi.
In un suo libro che consiglio a tanti di leggere, “Non per il potere” a un certo punto Langer scrive:

«Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana e onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso».

A circa un quarto di secolo di distanza, questa che allora poteva a molti apparire come una mera illusione oggi potrebbe invece diventare a tutti gli effetti una piattaforma programmatica per i Verdi. Mi auguro sappiano farne tesoro. Sarebbe anche il modo migliore per onorare la memoria di un uomo che tra qualche giorno sono già 24 anni che manca. Molto.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com