Renzi sfida il nonprofit

Finalmente un premier che conosce il settore nonprofit, i suoi molteplici punti di forza, ma anche i suoi non pochi, malcelati, limiti. E lo sfida. Apertamente. A mettersi in gioco, a cambiare, a innovare e a non crogiolarsi nella sovente celebrata autorappresentazione di “mondo di buoni”.

Fino a ieri abbiamo assistito a Presidenti del consiglio (ma anche ministri, sottosegretari, deputati, senatori, per non dire di rappresentanti delle istituzioni locali) che quando andavano a una manifestazione di volontari, operatori sociali, cooperanti, insomma della tanto decantata società civile organizzata, li blandivano, li lodavano, davano loro ragione su tutti i fronti, e promettevano il proprio personale impegno per far ottenere leggi ad hoc, finanziamenti, la costituzione di fantomatiche cabine di regia nelle quali sarebbero risultati invitati graditissimi.

Naturalmente poi in concreto non seguiva niente o quasi niente di quanto solennemente annunciato, però intanto almeno qualche scrosciante applauso lo strappavano e anche il Terzo settore (o meglio, molti suoi dirigenti) se ne tornava a casa convinto, ancora una volta, di essere sempre nel giusto. Adesso no. Sembra proprio di no. Con Renzi a Palazzo Chigi la musica potrebbe davvero cambiare. Basta autoreferenzialità a quintalate, sì a un atteggiamento propositivo del nonprofit che non si esaurisca però, questo il messaggio, nel chiedere sempre e solo leggi e soldi, soldi e leggi.

Lo ha fatto capire chiaramente a Lucca sabato scorso, dove ha partecipato al festival del volontariato. L’ha detto subito senza giri di parole: «Non sono qui per promettere ma per sfidarvi». E alla fin troppo prevedibile richiesta di stabilizzare la misura del “cinque per mille”, ha risposto in un modo ineccepibile che si può riassumere più o meno così:

«Io posso pure prendere in considerazione una simile ipotesi. Però così come sto cercando di fare con la pubblica amministrazione per la quale mi attiverò affinché entro un anno sia realizzata in rete la tracciabilità delle sue spese fino all’ultimo centesimo perché i cittadini devono sapere come vengono spesi i loro soldi, allo stesso modo chiedo al Terzo settore di accettare fino in fondo la sfida della trasparenza e della rendicontazione perché è inutile girarci attorno: così come ci sono organizzazioni nonprofit, e sono la grande maggioranza, che utilizzano bene i soldi del cinque per mille, cioè dei cittadini, ve ne sono altre dove questi si perdono in mille rivoli di cui è difficile se non impossibile rintracciarne la destinazione e la coerenza con la mission dell’organizzazione. L’intero settore nonprofit ci sta ad accettare la sfida della piena e più totale trasparenza?».

Almeno qualche dubbio su una convinta e generalizzata risposta affermativa da parte del nonprofit confesso che mi rimane se penso, per esempio, al bel libro di Valentina Furlanetto L’industria della carità, dove ci si può imbattere in varianti perlomeno singolari dei criteri di trasparenza e rendicontazione adottati anche da alcune blasonatissime Onlus. Dopo la scontata domanda sul “cinque per mille” hanno chiesto a Renzi di modificare altre leggi, leggine e l’immancabile (come ai concerti di Luca Carboni con la canzone “Silvia lo sai”) Codice civile, con argomentazioni ben poco convincenti (che più volte, anche qui sul Post, ho criticato) salvo quella che il Terzo settore deve essere messo nelle migliori condizioni per poter liberare appieno le sue consistenti potenzialità occupazionali. Giusto. Peccato però che ad affermazioni del genere, ovviamente più che condivisibili, non ne segua mai o quasi mai anche un’altra sulla necessità di regolamentare meglio i rapporti di lavoro nelle diverse tipologie di organizzazioni nonprofit, dove non di rado dipendenti e collaboratori vengono pagati male o sottopagati con contratti e scadenze molto discutibili. Se poi qualcuno lo fa notare ecco che arriva sempre in soccorso la retorica del bene.

Come magistralmente descrive a un certo punto del suo recente e vibrante romanzo I buoni Luca Rastello. È in corso un’assemblea associativa durante la quale il manager plenipotenziario dell’organizzazione nonprofit del caso rende pubblica l’esistenza di un grosso passivo di bilancio (che in realtà non c’è, ma non posso qui svelare la trama del libro) che però può essere riassorbito a patto che oltre alle cinquanta ore settimanali i dipendenti ne facciano anche sette di volontariato. Al che se ne alza uno e dice che in realtà sul contratto si parla di quaranta ore e non di cinquanta. Va avanti un botta e risposta finché, messo alle strette, Livio, il top manager furbo e cinico, contrattacca come un consumato attore melodrammatico:

«Che siamo qui per avere un lavoro e pensare alle clausole contrattuali? Guarda, vuoi sapere la verità? Io invece sono qui per un progetto di vita. E magari lo rivendico anche di non sapere quante ore prevede un contratto. A partire dal mio. Il fatto è che io la sento la frusta dell’oltre, tutti i giorni, non solo in piazza. E’ chiaro che non è un lavoro, questo? Per nessuno! Ma per te è diverso. Per me invece i soldi non sono un problema, non siamo gente che si preoccupa dei soldi. Siamo qui senza se e senza ma. Io credo che chi sta qui per lavoro, e non per condividere un progetto, forse dovrebbe guardarsi attorno».

Ah quante sono, molto più di quelle che si possano immaginare, le realtà del nonprofit dove ti accompagnano alla porta invitandoti a “guardarti intorno” appena tocchi certe questioni.

Ma torniamo a Renzi. Che dopo aver pazientemente ascoltato tutto e tutti, avviandosi alla conclusione ha rilanciato:

«Io penso che il Terzo settore, che per me in realtà è il primo, è un universo così ricco e composito che non può essere regolamentato se non con una legge di ampio respiro. Oggi è il dodici di aprile. Tra un mese esatto, il dodici di maggio, che è anche un lunedì e ci sta a cominciare così una nuova settimana, mi impegno a mettere a punto un disegno di legge delega di riforma del volontariato e più in generale del nonprofit. A quel punto mi aspetto da voi rilievi, proposte, correzioni, sono cioè pienamente disponibile a raccogliere ogni utile suggerimento purché non mi proponiate di aprire un “tavolo”. Quello no, ve lo dico subito, la stagione dei tavoli e degli eterni dibattiti con me è finita».

Riassumendo quindi: sì alla propositività, no all’autoreferenzialità, no ai tavoli. Al Terzo settore non resta quindi che mettersi davvero in discussione e cambiare. Finalmente.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com