A quando la Renzieconomics

È ingeneroso Bersani quando afferma, come ha fatto nei giorni scorsi intervistato da Repubblica TV, che non c’era bisogno che lo dicesse Renzi che c’era bisogno del ricambio. Non è così e lo sanno anche i sassi. Se non ci fosse stato il sindaco di Firenze negli ultimi due anni a martellare su questo tasto con encomiabile tenacia saremmo ancora alla supponenza di tanti notabili del PD che di schiodarsi dalla poltrona che occupano da fin troppo tempo non ci penserebbero nemmeno lontanamente. Poiché il segretario del Partito Democratico è una persona seria e perbene dispiace che in questo caso abbia un po’ difettato in onestà intellettuale e si sia poi anche guardato dal riconoscere di essere, perlomeno, stato frainteso.

Proprio però perché l’onestà intellettuale è uno dei requisiti principali che ci si aspetta sia nel dna dei due principali competitor alle primarie del centrosinistra anche Renzi, nella recente vicenda ormai comunemente denominata delle “Cayman” non è che ne abbia dimostrata molta. Non tanto perché ci sia qualcosa di male ad andare a parlare a una riunione organizzata da un gestore di hedge fund domiciliati nel noto paradiso fiscale (anzi, diciamola correttamente per esteso, con le stesse parole dell’artefice dell’incontro, il finanziere Davide Serra, che lavora per la società Algebris con base a Londra che gestisce alcuni fondi domiciliati, per motivi di trattamento fiscale degli investitori, alle isole Cayman). Bensì perché ha dimostrato ancora una volta, nelle reazioni del giorno dopo, di non aver colto che talora, riconoscere di aver commesso anche solo un piccolo errore ti conferisce molta più forza e credibilità che non perseverare sempre con lo stesso refrain.

La circostanza di quando andò ad Arcore a parlare dei problemi di Firenze con Berlusconi avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Nulla da eccepire sulle buone intenzioni alla base del viaggio in Brianza. Quando però in tanti, opportunamente, gli hanno fatto notare che forse sarebbe stato meglio fissare quell’incontro a Palazzo Chigi quanta infinita autorevolezza in più avrebbe ricavato Renzi se poi avesse detto: «Premesso che per Firenze farei qualunque cosa, col senno di poi mi rendo conto che forse qualche critica ci può stare». Nella politica la forma è sostanza, avrebbe dovuto saperlo. E invece niente, ancora oggi Renzi continua a dire che quel viaggio lo rifarebbe dieci, cento, mille volte. Convinto lui.

Stessa cosa, più o meno, è accaduta la scorsa settimana con la cena al prestigioso hotel Four Seasons con il mondo della finanza milanese. Ripeto, credo non ci sia stato nulla di male. Poiché però gli hedge fund sono per definizione strumenti finanziari speculativi (la traduzione in italiano di hedge fund è, appunto, fondi speculativi) ecco che un aspirante premier del centrosinistra ospite di chi con gli hedge fund ci ha professionalmente a che fare, viste le polemiche che ne sono conseguite (strumentali o meno a questo punto è secondario) avrebbe potuto spegnerle in un baleno ammettendo che forse, se quell’incontro si fosse svolto piuttosto che a porte chiuse in un hotel a cinque stelle extra lusso in una sala aperta al pubblico al Palazzo delle Stelline (o dove per esso) sarebbe stato meglio per tutti. Ribadisco, in politica la forma è sostanza.

Invece anche stavolta da Renzi non solo non è venuto nemmeno un filo di autocritica ma ci ha anche tenuto a rilanciare con un paio di affermazioni molto discutibili se non errate. La prima: «Con la finanza bisogna parlarci». E chi ha mai sostenuto il contrario, almeno nel PD? Forse che la sinistra in questi anni non abbia “dialogato” la finanza? Forse Renzi non ricorda la sferzante battuta del giurista Guido Rossi quando D’Alema era presidente del Consiglio, a proposito di Palazzo Chigi: «È l’unica merchant bank in cui non si parla inglese».

La seconda affermazione di Renzi è invece semplicemente sbagliata: «La finanza non è buona o cattiva, la politica può esserlo». Che la politica possa essere cattiva è fin troppo scontato. Ma lo stesso vale, pari pari, per la finanza. Al punto che, per dirne una, George Soros, uno dei più grandi speculatori del mondo, che tra le altre cose con i suoi hedge fund vent’anni fa mise in ginocchio la lira, ha sentito il bisogno quattro anni fa, dopo lo scoppio planetario della crisi finanziaria, di scrivere un libro dedicato proprio alla Cattiva finanza.

Naturalmente la cattiva finanza non è solo quella dei prodotti tossici, delle obbligazioni spazzatura, delle bolle finanziarie, dell’uso illegittimo dei derivati, ma anche quella delle banche che erogano credito secondo logiche clientelari lasciando all’asciutto chi invece un fido lo meriterebbe davvero, quella dei patti di sindacato che permettono a un nucleo ristretto di soggetti di controllare con pochi soldi le sorti di una società di capitali, quella di chi si quota in borsa, porta a casa un sacco di quattrini e poi mal gestisce l’azienda bruciando il risparmio dei piccoli azionisti, quella frutto dell’inamovibilità di alcuni vertici bancari e parabancari divenuti ormai incapaci di “intercettare” il futuro dell’economia ma concentrati prevalentemente su come conservare il proprio incarico.

L’elenco può essere ancora lunghissimo ma ritengo sia già sufficiente. Perché in realtà da certe affermazioni del sindaco di Firenze si evince un pensiero economico, mettiamola così, ancora piuttosto in “rodaggio”. Come altrimenti valutare affermazioni come questa (intervista al Sole 24 Ore del 12 ottobre): «La battaglia per l’evasione non la fai con lo scontrino». E invece, caro Renzi, con lo scontrino la lotta all’evasione la si fa, eccome (anche se, ovviamente, non si esaurisce qui), perché non solo fai rientrare nelle casse dell’Erario somme di denaro comunque non trascurabili, ma contribuisci anche a creare una coscienza civica sul fatto che evadere le tasse sia reato. Bastava leggere ieri su Repubblica come siano sempre di più gli italiani che non chiudono più un occhio davanti alla mancata emissione di uno scontrino al bar o di una fattura di un professionista, anzi si attivano per denunciare la circostanza chiamando il numero anti evasione 117 della Guardia di Finanza (da gennaio a settembre triplicate le chiamate).

E ancora, che dire di quest’altra considerazione, contenuta sempre nella stessa intervista al Sole: «Noi non chiederemo di pagare di più a chi ha di più, vogliamo far pagare di meno a chi ha di meno. La sinistra che piace a me non fa la guerra alla ricchezza, fa la guerra alla povertà». Confesso la mia incredulità. Ma come si fanno a dire queste cose? A parte che lo slogan della guerra non alla ricchezza ma alla povertà l’ha usato prima Veltroni (il che è tutto dire, visto che Veltroni ha indubbiamente alcune riconosciute qualità ma in economia non è che sia ferratissimo) devo dedurre che, secondo questa concezione, Renzi non chiederebbe di pagare più tasse, tanto per fare qualche esempio, a chi vive di rendita affittando dieci palazzi di proprietà in centro, a manager che portano a casa ogni anno bonus milionari, spesso licenziando senza scrupoli, a chi occulta il proprio patrimonio attraverso artifici legali? Suvvia Renzi, ha convenuto lei stesso (Corriere della sera del 5 novembre 2011) che la parola d’ordine del centrosinistra deve essere l’equità sociale. E questi sarebbero gli strumenti per realizzarla?

La Reaganomics, come molti ricordano, prese origine sul famoso “tovagliolo di Laffer”, su cui l’economista americano, Arthur Laffer appunto, a una cena con il futuro presidente americano, disegnò una curva a campana per persuaderlo che con meno tasse avrebbe rilanciato l’economia (peccato si sia dimenticato di aggiungere che così il debito pubblico sarebbe schizzato alle stelle, come poi puntualmente avvenne)

Avanzo un piccolo suggerimento per una sorta di Renzieconomics. Faccia una cosa simile ma di segno opposto. Disegni, magari piuttosto che su un tovagliolo su una delle slide che mostra ai suoi incontri, sempre una campana, ma stavolta come simbolo di una campana che promette farà suonare “a morto” per la cattiva finanza, intesa nelle sue molteplici accezioni, qualora dovesse andare al Governo. Vedrà che funziona.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com