Kabul, mondo

Secondo i timori peggiori, l’aeroporto di Kabul sarà presto definitivamente chiuso (lo è già a tutti i voli commerciali). Se accadrà, o meglio quando accadrà, le scalette prese d’assalto in queste ore metteranno al vuoto, metafora perfetta della repentina assenza di chi si era presentato come arra di un mondo migliore.
Se accadrà, quando accadrà, il confronto iconografico più stringente per le immagini che abbiamo ossessivamente negli occhi diventerà forse non più la frenetica evacuazione riennevaplus dai tetti della lontanissima Saigon (1975), ma un video di quindici anni fa, capace – come solo l’arte sa fare – di precorrere i tempi: nel suo Centro di permanenza temporanea (2007) l’artista albanese Adrian Paci mette in scena un gruppo di persone senza bagagli che sulla pista vuota di un aeroporto si affrettano ordinatamente e si stipano sopra una scaletta in attesa di un velivolo che non arriverà.
Emigrato egli stesso dall’Albania nel nostro Paese (oggi vive e lavora tra Bergamo e Milano), Paci dedicava quel video (quelle riprese, perché la scena è vista in diversi momenti e da diverse angolature) non tanto a un gesto di denuncia quanto a un affondo sulla condizione esistenziale del migrante, colui che passa la vita in un’attesa gravida di impotenza; colui per il quale ogni rombo in sottofondo sembra il rumore della carlinga che finalmente si aprirà per lui, ogni bava di vento il segno di un’elica, l’illusione di un salvatore in arrivo. E invece niente.
Chi è stato a Idomeni nel marzo 2016 i profughi afghani li ha visti, e li ha trovati anzi già tutti imbottigliati, perché dal gennaio di quell’anno – solo poche settimane dopo il “Wir schaffen es” di Frau Merkel – la rotta balcanica era rimasta aperta (e con difficoltà) soltanto a Siriani e Iracheni: gli Afghani, si diceva all’epoca nelle cancellerie, e si ripeteva pari pari fino a ieri, hanno un Paese in pace, grazie all’intervento della Nato.
Nel video di Paci la cosa che impressiona di più (e che più conta, oggi che siamo invece scioccati dalle scene di massa) sono i lunghi primi piani degli uomini sulla scaletta – poco importa che i tratti somatici siano diversi, il video è stato girato in California. Da oggi, da domani, saranno quegli occhi, quei volti – che tutto chiedono e tutto significano tranne che pietà – a interrogare chi si è messo precipitosamente in salvo. Mentre la Mitteleuropa unanime sembra lavorare a imminenti delocalizzazioni in Pakistan o in Iran, secondo le agenzie il primo Paese a dichiararsi pronto ad accogliere alcune centinaia di rifugiati afghani, è stato l’Albania.

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.