L’insicurezza dei rider

Tra le immagini della pandemia 2020 rimarranno senz’altro le strade deserte solcate da isolati ciclisti, spesso di colore, con dietro grandi pacchi gialli dai colori vistosi, o l’epico assembramento pasquale dei medesimi ciclisti a fine turno sulle banchine della metro milanese.

Una recentissima relazione del Nucleo ispettorato lavoro dei carabinieri di Milano, che fa seguito a precedenti, specifiche ingiunzioni dei Tribunali di Bologna e Firenze, indica ora che soprattutto nella prima fase dell’epidemia molti riders sono stati lasciati senza protezioni adeguate, e che diverse società di delivery non avrebbero aggiornato in maniera congrua e tempestiva il loro “Documento valutazione rischi”; si tratta di fenomeni già ampiamente denunciati dai gruppi che rappresentano i fattorini. Le aziende, dal canto loro, ribadiscono la correttezza del loro operato, e almeno una di esse (Glovo) insiste che i riders non potevano giuridicamente essere inclusi nel citato Documento in quanto risultano essere lavoratori autonomi e non loro dipendenti.

Si giunge così, totalmente a prescindere dalle eventuali responsabilità nel caso concreto, a un nodo di fondo di questa forma di lavoro divenuta improvvisamente così centrale da stagliarsi, unica visibile, sul deserto circostante. Una questione che nel 2019 è stata affrontata, per vie diverse, dai due grandi vecchi del cinema europeo engagé, Robert Guédiguian e Ken Loach, il primo con Gloria Mundi, sconsolato apologo sui tassisti Uber di Marsiglia (coppa Volpi a Venezia per Ariane Ascaride), il secondo con Sorry we missed you (presentato a Cannes), impietoso affresco del mondo dei riders di Newcastle.

Ambedue i film, ben anteriori alla pandemia, si concentravano proprio sul problema della sicurezza dei lavoratori, in termini di salute e di vita. In particolare, denunciavano lo iato fra la roboante retorica del reclutamento (il “farcela”, l'”essere un leader”, con esplicita citazione dei mantra di Macron e Trump, in questo quasi sovrapponibili), e una realtà grama e spaventevole, fatta di lavori massacranti e fintamente autonomi, di protezioni sociali inesistenti, di guadagni da fame, di cottimi impietosi, di precipizi ineluttabili al minimo intoppo (un pestaggio imprevisto, un guaio in famiglia). In mancanza di garanzie contrattuali, in assenza di un sindacato al passo coi tempi, l’inevitabile fallimento individuale, nei film, finiva per travolgere figli, mogli, fratelli, con ricadute pesanti sulla società tutta.

In Italia questo modello di lavoro (con tutta la retorica annessa: “Vuoi guadagnare nel tempo libero? lavora per noi!”) è ben diffuso, e due recenti inchieste televisive (quella di Giovanna Boursier per Report dell’11 novembre 2019, e poi quella di Presa Diretta del 20 gennaio 2020) ne hanno mostrato i risvolti meno edificanti, tra algoritmi spietati, infortuni non coperti, start-up talora evanescenti. Senza voler entrare nella polemica politica, viene da chiedersi oggi, con il senno di poi, se non sia risultato provvidenziale il pur timido decreto volto a dare ai riders qualche minima garanzia in più, fortemente voluto da Luigi Di Maio e poi da Nunzia Catalfo, e varato nel novembre scorso tra le ironie di alcuni benaltristi e le tenaci (a tratti incredibili) resistenze delle aziende.

Ora, l’inchiesta della Boursier si apriva denunciando il caso di una ditta di consegne a domicilio, la “PonyU”: tale azienda, celebrata a Napoli e Milano come modello di start-up intelligente, si è sviluppata (e ne è ora partecipata) all’interno dell’incubatore d’impresa veneto H-Farm, che trova proprio nel mercato dell’”ultimo miglio” e nel food delivery uno dei suoi àmbiti d’azione. Com’è ben noto nel Nordest, H-Farm ha stipulato una discussa partnership con l’Università Ca’ Foscari di Venezia per un fortunato Corso di laurea in “Digital Management”, che costa a ogni studente ben 7500 euro, in larga parte destinati proprio alle casse dell’azienda, la quale, dopo numerose polemiche sulla sostenibilità ambientale, sta ora costruendo in riva al fiume Sile un grande Campus.

È lecito sospettare che in tale Corso di laurea i mirabolanti algoritmi delle imprese di food delivery vengano portati a modello: lo si arguisce dagli stages offerti agli studenti proprio presso PonyU, dai ripetuti inviti a Matteo Sarzana (ceo di Deliveroo Italia e presidente di Assodelivery, astro emergente dei rampanti quarantenni italiani nonché grande sostenitore del cottimo), dalla sponsorship che proprio nel mese di novembre l’Ateneo veneziano ha riservato a un incontro milanese che aveva tra i protagonisti il Country Manager di Just Eat.

Resta da sperare che l’università pubblica, che alcuni vorrebbero il luogo dell’elaborazione di idee e di ideali oltre che di nuovi sistemi di guadagno, sappia non solo e non tanto favorire il proliferare di fragili start-up italiane per il personal shopping o le consegne dell’ultimo miglio, ma anche instillare negli studenti e nella società un legittimo pensiero critico (e magari una volontà d’intervento?) nei confronti di un modello di rapporti lavorativi che, per come l’abbiamo conosciuto, contribuisce ad alimentare insicurezza e disperazione.

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.