Signori, il televoto

Voi siete sicuri che candidare Mara Carfagna sia comunque meglio che candidare Nicola Cosentino: io no. Detto questo, il garantismo è morto, finito, polverizzato. Delegare una candidatura ai sondaggi dell’ultimo minuto, basandosi non su criteri oggettivi ma sulla volubile reputazione di un inquisito rispetto a un altro, è una barbarie definitiva, è una degenerazione che regala ai mass media un potere immenso e – in Italia – immeritato. L’esclusione automatica di un candidato soltanto perché inquisito o rinviato a giudizio, già in sè, sarebbe un lusso che non possiamo ancora permetterci: troppe assoluzioni tardive, troppi errori, troppe toghe che fanno politica con altri mezzi. Ma demandare tutto e direttamente alla volatilità dei sondaggi – a opera di un Pdl, per esempio, che paradossalmente non ha voluto le primarie – significa che le liste le compileranno i giornalisti anziché i magistrati, significa che a decidere sarà la violenza o l’assenza di campagne stampa all’italiana. Fermate per strada un cittadino o un politico che giudichi «impresentabili» Tizio o Caio: scoprirete che in realtà non ne sa nulla, che non ha mai letto mezza carta, compresi i parlamentari che in aula autorizzarono arresti sempre in base a sondaggi e a diktat di partito. È il punto più basso: abbiamo un Parlamento detestato e al tempo stesso svenduto al malcontento popolare, una demagogia securitaria buona a punire solo romeni e prostitute, un garantismo trasformistico che è l’unica cosa, da noi, davvero uguale per tutti.

Ma i veri impresentabili restano le amebe, i leccapiedi, i sottovuoto spinto, le donnine compiacenti e paracule, gente mai indagata perché incapace di ogni cosa e quindi anche di delinquere. S’avanza il Parlamento degli anonimi e degli accondiscendenti, ma «presentabili» spesso per assenza di qualità. Il caro e schifoso Porcellum edizione 2008 almeno non era ipocrita, il sottotesto era «ti candido perché mi va così» e arrivederci in Parlamento. Era difficile peggiorarlo, ma ci sono riusciti con la iattura ipocrita della «presentabilità» a geometria variabile. Il veto assoluto sugli inquisiti o sui rinviati a giudizio non l’ha mantenuto praticamente nessuno (a destra fa eccezione Fratelli d’Italia e Fermare il declino, forse) ma si è proceduto a un discrimine tra un inquisito e l’altro e tra un «impresentabile» e l’altro, regalando i destini di un aspirante candidato alla sua buona o cattiva stampa. Un censimento serio sarebbe un lavoro da pazzi, ora, ma gli esempi lampanti sono lì. Berlusconi è il più celebre inquisito del Paese (condannato in primo grado) ma ovviamente rappresenta un’eccezione, tuttavia gli amici del Fatto Quotidiano ieri insistevano nel titolare «Berlusconi candida due testimoni del caso Ruby» (Simonetta Losi e Bruno Archi, neo cavalli di Caligola) ma ci si dimenticava che Antonio Ingroia ha candidato al Senato Sandra Amurri, testimone al processo sulla «trattativa». Ma sono esempi da due soldi, il casus belli resta quello di Nicola Cosentino che è stato escluso perché è indagato (e mai processato, anche se presto potrebbe finire in galera) ma ecco che resta in lista l’amico e collega di partito Luigi Cesaro, pure lui indagato per i suoi presunti rapporti con i casalesi. Nel Pd, in compenso, niente da dire sulla cronista pasionaria Rosaria Capacchione, rinviata a giudizio non per diffamazione – sarebbe normale – ma per calunnia ai danni di un ufficiale della Guardia di Finanza. Sul suo caso la libera stampa non si è scatenata: tutto qui. Il comitato dei garanti del Pd ha un solo pregio: esiste, ma questo non l’ha distolto da operazioni di straordinaria doppiezza. Le sue linee guida, in teoria, si orienterebbero sulla legge anti-corruzione e su un «codice» che osteggerebbe solo condannati con sentenza in giudicato e rinviati a giudizio per reati gravi come mafia e concussione: ma, a ben vedere, hanno fatto fuori Antonio Papania per un abuso d’ufficio (2 mesi e 20 giorni) e soprattutto Vladimiro Crisafulli che è stato solo rinviato a giudizio per lo stesso reato, mentre il campano Nicola Caputo, fatto fuori anche lui, figura solo indagato per rimborsi falsi. Qual è, dunque, il criterio? Eccolo: la massima discrezionalità esattamente com’era prima, ma ammantata di un finto moralismo ossequiato alle inchieste della magistratura ma soprattutto alla reazione differenziata che la stampa vi dedica. Oppure neanche quello: discrezionalità pura, simpatie o antipatie, sondaggi dell’ultim’ora. Nel Pd, per esempio, sarebbe interessante comprendere che cosa abbia tenuto in lista Nicodemo Oliverio (imputato per bancarotta fraudolenta) e Francantonio Genovese (indagato per abuso d’ufficio) e Andrea Rigoni (condannato e prescritto per costruzioni fuori norma) e infine Giovanni Lolli (a processo per favoreggiamento e poi prescritto). Non che la situazione in casa Pdl sia più limpida: per l’ex Presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto sono stati chiesti sei anni di reclusione per corruzione e finanziamento illecito e peculato: ma è in lista. Claudio Scajola invece è fuori. L’indagato Roberto Formigoni è dentro. Denis Verdini, indagato per la P4 e per truffa, addirittura ha compilato le liste. Un neo «montiano» come Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc, è stato dapprima condannato a 3 anni e 3 mesi (tangenti) ma poi la prescrizione ha risolto tutto; invece Enzo Carra è stato condannato per una falsa testimonianza nel lontano 1993 (16 mesi, in base a una norma poi abrogata) e lui dalle liste è fuori. Problemi che semplicemente non esistono dalle parti dell’Mpa di Raffaele Lombardo, ex governatore siciliano che si è tranquillamente candidato a dispetto del rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa; parimenti serafici i suoi fidati colleghi Roberto Di Mauro (richiesta di rinvio a giudizio per omissione d’atti d’ufficio) e Giuseppe Federico (indagato per voto di scambio). Ora lo so, ne mancano un sacco: metteteceli voi. Tanto domani è un altro giorno. E un’altra indagine, vien da dire: perché va anche detto che un altro sottotesto di tutto il quadro è l’insostenibile leggerezza con cui le procure di tutt’Italia – vere incubatrici di candidati, oltretutto – fabbricano o espellono indagati di sorta. Che un’indagine non si neghi a nessuno, in Italia, è la pura verità. Che certe indagini siano il nulla se non dopate dalla stampa, e che certa stampa sia il nulla se non dopata dalle procure, è un’altra verità.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera