Travaglio e il suo doppio

Una differenza tra Marco Travaglio e Giuliano Ferrara – una delle mille – è che il primo, lunedì sera su La7, non rideva. Al limite sorrideva sardonico, si metteva leggermente di tre quarti con la bocca a inversione di marcia e gli occhi sgranati, bolliti dal sole, incolleriti come se una pallonata gli avesse frantumato i vetri della parrocchia. Travaglio non rideva e incespicava nei tranelli grossolani di Ferrara come trattenuto nella sua boria spaventosa, come impietrito nella sua vanità adamantina che è l’altra faccia della sua timidezza. E uno può dire: chi se ne frega, quello di Travaglio resta un pubblico da Fight Club che dei contenuti intrinseci intende poco o nulla, basta che si meni: ascoltano il loro vate come se fosse un matematico che tra una formula ermetica e l’altra (la Consulta, l’articolo 338: sai che gli frega) si incendiano alle poche parole riconoscibili, alle grillate che non disdegnano i consueti sfottò sui difetti fisici dell’avversario: perché le sentenze e i Zagrebelsky di qua e di là, come no, ma alla fine c’è sempre che Ferrara è un ciccione («Bersaglio mobile») e altri sono rispettosamente dei rincoglioniti («sveglia, Macaluso») e insomma il solito cabaret del Travaglino.

Ma questo non c’entra, ora. Rivelatore è come Travaglio non rideva – dicevamo – e come maneggiasse l’espressione «verità» rispetto ai giuristi della domenica che osassero obiettare qualcosa e che sono sempre inquadrati come complici, conniventi, servi, talvolta ladri, quantomeno disinformati perché non hanno fatto una cosa che lui, Travaglio, fa sempre: copiare e ripetere. Lo fa bene, toglie amido al giuridichese, conciòna l’avversario con idiomi a metà tra il questurino e i vecchi film sulla mala, ma Travaglio fa quello: copia e ripete, e pazienza se lo faceva, per dire, anche un Ugo Intini con Bettino Craxi. Pazienza se l’Avanti! faceva con Craxi quello che Il Fatto Quotidiano fa con Antonio Ingroia: stessa puntualità, fedeltà, assenza di sbavature anche minime. Però Intini non andava in vacanza con Craxi. Intini, onestissimo, documentatissimo, non te la menava col povero Montanelli (che forse un virgolettato giudiziario non l’ha mai usato in vita sua) e con l’accigliata prosopopea del «facciamo-solo-i-giornalisti» e «raccontiamo-solo-i-fatti». I fatti di Ingroia, peraltro. Ecco, è questa pretesa superiorità che rende Travaglio insopportabile e versatile come un carillon: lui dice «non bisogna dare del tu ai politici né andarci a pranzo», ma coi magistrati però ecco, si può fare, anche se i magistrati all’occorrenza sono uomini di potere e soprattutto di parte, perché sono fonti univoche: ma se parli con Cicchitto e con Bersani sei un servo, se invece parli con Ingroia e Zagrebelsky sei un sacerdote della verità.

Se non parli giornalmente con nessuna fonte specifica, poi, sei un giornalista normale, un ignavo, una cosa terribile. E’ altro quel che deve fare il giornalista: deve fare copisteria giudiziaria, deve occuparsi della «verità» e dei «fatti» (quotidiani) perché del resto «prima che a condannare o ad assolvere, i processi servono ad accertare i fatti». Cazzata siderale, perché i processi servono a ciò a cui è costituzionalmente preposto il sistema penale, cioè a condannare o ad assolvere in nome del popolo italiano, non certo a redigere copiose motivazioni della sentenza (sentenza magari sterile, di prescrizione) e quindi a infarcire i libri di Travaglio con la consolazione che Andreotti o Berlusconi, se non fossero risultati prescritti e dunque «non colpevoli», magari sarebbero stati giudicati diversamente.

Ecco: Travaglio ha dedicato a questo la sua vita. La profusione di «fatti» e «verità» giudiziarie (non storiche) nasce da qui, e da qui nasce la pretesa di spiegare che il determinato processo X si doveva comunque fare: anche se è un delirio, anche se nessuno ricorda neppure il reato (che non è «trattativa», nel caso) e anche se, per inseguire i deliri di procura, si rischiasse di scrivere che Berlusconi e Dell’Utri sono i mandanti del delitto Borsellino e che Giorgio Napolitano sarebbe «il capo di quello Stato che trattò, e forse ancora tratta, con la mafia»: parole di Marco Travaglio, 18 luglio scorso. Questa immensa cazzata l’ha ripetuta sommessamente anche lunedì sera: che tutti i governi dal 1992 a oggi, cioè, possano esser stati complici di una legislazione pro-mafia a margine di un’eterna trattativa. L’ha detta ma quasi si vergognava, si vedeva: sentiva addosso gli occhi di Enrico Mentana e di altre persone normali. Si vergognava e ne aveva ragione.
Ma tornando a monologare con lo specchio, da Santoro, tutto tornerà più facile. La sua alterigia troverà pace, la vena del collo non rischierà di esplodergli.

N.B. Peccato che Travaglio non abbia voluto essere ospite a In Onda (la7) solo «perché ci sono io», come mi disse personalmente a giugno. Il 4 luglio, a In Onda, c’è venuto persino Ingroia, peraltro con Maurizio Belpietro. Direttamente Ingroia. Già che c’eravamo, abbiamo preso l’originale.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera