Se l’intercettato è Ingroia

Ma sì, pubblichiamo tutto, chi se ne frega: quindi anche i dialoghi telefonici della mia portinaia e quelli del presidente della Repubblica. Costituzione, rilevanza penale? Chi se ne frega, forse aveva ragione l’amico e collega Gianni Barbacetto (che scrive sul Fatto Quotidiano) quando disse a Omnibus, su La7, che «trovo benemerito raccontare che cosa dicono i politici quando pensano di non essere ascoltati, a me del piano penale non importa nulla, a me interessano i fatti, io sono per un uso non giudiziario anche del piano penale. Le persone che si telefonano raccontano loro stessi, in diretta, è quindi evidente che non c’è nulla da accertare».

Vale per i politici e vale per tutti i personaggi pubblici, quindi anche per i magistrati, quindi anche per Antonio Ingroia. Un valido contributo a cotanta trasparenza potrebbe quindi risultare dalla pubblicazione, ora e qui, di un brogliaccio del 2003 in cui i carabinieri del Nucleo operativo di Palermo annotarono degli appunti circa alcune telefonate intercettate: accadeva, per la precisione, il 28 febbraio del 2003 alle ore 9.36; gli attori del caso erano due, anzi tre. Uno è Michele Aiello, mafioso di Bagheria, ex re delle cliniche e primo contribuente siciliano, protetto personalmente da Bernardo Provenzano e successivamente arrestato e condannato. Un altro è il poliziotto Giuseppe «Pippo» Ciuro, strettissimo collaboratore di Ingroia e suo vicino di scrivania e compagno di vacanze, l’uomo che il 26 novembre del 2002 varcò il portone di Palazzo Chigi per interrogare Silvio Berlusconi (assieme a Ingroia, ovvio) ma che pure, il 4 novembre successivo, sarà arrestato e condannato per favoreggiamento del citato Aiello. Il terzo attore, a cui Pippo Ciuro passa la cornetta per parlare proprio con Aiello, si chiama Antonio Ingroia che pure i presenti chiamano «’u professore». E di che parlano? Parlano di lavori edili che erano in corso a Calatafimi, provincia di Trapani, appunto «in una casa di ’u Professore», lavori che «per ora sono fermi perché vuol farli fare a persone di sua fiducia».

Ingroia e il protetto di Provenzano parlano di mattonelle, di tramezzi, di muri, di colori, di tempi di consegna, di un primo conto dopo che il padre – il padre di Ingroia, proprietario della masseria di Calatafimi – ha ricevuto un finanziamento agevolato dalla legge sul terremoto del Belice. Sì, il Belice, nel 2003: ancora giravano soldi per un terremoto di 35 anni prima, cose molto siciliane, chissà Ingroia che ne pensa. Alla fine della telefonata comunque Aiello rassicurava il pm: tranquillo professore, ci pensiamo noi.

Ecco: i rischi delle intercettazioni sono tutti qui. Sono nella malizia, infinita, che può ritagliarsi attorno a un episodio del genere, roba che qualche giornale o partito nemico potrebbe montare e rimontare per mesi. Senza magari precisare, sempre e con chiarezza, che non solo nella vicenda non v’è la minima rilevanza penale riguardante Ingroia: ma lo stesso Ingroia, nel momento della telefonata, era già al corrente dell’indagine che alcuni suoi colleghi conducevano su Aiello e Ciuro, tanto che il «professore» fu invitato a far finta di niente. Un doppio gioco incrociato. Pippo Ciuro, prima di essere scoperto dai pm (Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino e Nino Di Matteo) aveva procurato all’amico Ingroia un’impresa che appunto ristrutturasse il casolare paterno a Calatafimi: e l’impresa scelta da Ciuro fu proprio quella di Aiello. Del resto, all’epoca, Ciuro era ancora il braccio destro di Ingroia (in Procura li chiamavano «puri e ciuri») e al mare avevano i villini affiancati, laddove per un’estate si affaccerà anche l’incolpevole Marco Travaglio che era legato a entrambi (a Ciuro e a Ingroia) ma che a ricordargli l’episodio, ogni volta, perde il lume della ragione. Dal canto suo anche Michele Aiello, sino all’arresto, era uno che – dirà Ciuro in un colloquio con Libero, cioè con me – «i signori magistrati ci sono andati a cena, si sono fatti costruire le case, e quando lui aveva bisogno, correvano». Ma tutta questa faccenda – l’episodio, la telefonata, il casolare, i finanziamenti per il terremoto del Belice – rimarranno confinati a uno scritto come questo: come è giusto, e come tuttavia non è accaduto per altri personaggi o per altre vicende pompate per mesi, benché oggi ne sia rimasto poco o nulla. Un nulla però inutilmente trasparente.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera