Chi si è fidato di Ciancimino

L’arresto di Massimo Ciancimino suona quasi come una rivendicazione di proprietà, come una mossa possessiva da parte della stessa procura di Palermo che per anni (più di tre) l’aveva vezzeggiato e ritenuto più che attendibile. Lo si capisce da mille cose, soprattutto dalla velina comparsa ieri sul Fatto dove si tenta di far passare per buoni degli schemi puerili come questo: vedete?, noi pm di Palermo siamo gente seria, noi siamo come Falcone quando arrestò il pentito Pellegriti che aveva calunniato Salvo Lima: perciò, adesso che non possiamo farne a meno, arrestiamo Ciancimino e continuiamo a gestirlo come abbiamo sempre fatto, purché sia chiaro che tutte le cose che lui ha detto sinora noi continuiamo a ritenerle buone e a usarle per avvalorare le nostre cervellotiche istruttorie.

Questo lo schema, per buona pace della procura di Caltanissetta che – assieme al resto del mondo – aveva capito da un pezzo che Massimo Ciancimino era uno sparaballe matricolato, nonché un nuovo genere di star mediatica dell’antimafia: il superteste trendly, di casa nei salotti romani come in quelli di Annozero, gradita presenza alle feste dell’Unità come a quelle di Cortina, sempre vestito come un gagà e sempre in procinto – a sentir lui – di riscrivere la storia d’Italia a mezzo di clamorose rivelazioni dimenticate in un qualche foglietto nascosto nella giacca lasciata in lavanderia.

E infatti era da mesi che le procure di Caltanissetta e Palermo si scannavano senza complimenti ma alla siciliana, bisbigliando, coi pm nisseni a osare indagare Massimo Ciancimino dopo che l’aveva sparata troppo grossa sul prefetto Gianni De Gennaro, ritenuto pedina fondamentale di quella «trattativa» tra Stato e mafia che ormai è diventata un trattato psichiatrico. Quell’incriminazione di Ciancimino, a Palermo, non l’avevano gradita per niente: e sta di fatto che l’indagato a Caltanissetta si avvalse della facoltà di non rispondere, mentre a Palermo continuò a straparlare come sempre. Continuò cioè a riempire dei verbali che gli stessi uomini che l’hanno arrestato ora cercano di salvaguardare: «Non è detto che Ciancimino abbia mentito su tutto», dicono ora. Come a dire: mica possiamo ammettere che da oltre tre anni disegniamo fantasmagorici scenari di cazzate.

Detto questo, le differenze tra Giovanni Falcone e i pm di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo e Paolo Guidi – altro che pentito Pellegriti – restano alcuni milioni, e se ne può enumerare solo qualcuna. Sicuramente Giovanni Falcone non avrebbe permesso che un proprio teste-chiave divenisse una star dell’antimafia mondana circolando con una scorta nutritissima che persino il prefetto di Palermo Giuseppe Caruso – dopo un’intercettazione in cui Ciancimino parlava con un tizio in odore di ‘ndrangheta – aveva invano cercato di levargli; un teste che, ospite all’hotel Brufani-Raffaello di Perugia (cinque stelle) una settimana fa partecipava al Festival del giornalismo per presentare un libro che «riscrive la nostra storia» e di passaggio la ritocca in photoshop, come ha fatto con il documento galeotto che l’ha spedito in carcere. Sicuramente Giovanni Falcone non avrebbe mai scritto libri imbarazzanti come quello in cui Antonio Ingroia diceva di Ciancimino: «Dal primo incontro ho capito subito che era di tutt’altra pasta… oggi è arrivato a diventare quasi un’icona dell’antimafia».

Giovanni Falcone, che non credeva nel Terzo livello mafioso come scrisse chiaramente sulla Stampa il 30 luglio 1989, difficilmente avrebbe cercato di avvalorare un quarto livello come ha fatto Antonio Ingroia nella sua introduzione appunto a «Il quarto livello», libro di Maurizio Torrealta in cui magistrato tra l’altro scrive: «Le ricostruzioni e interpretazioni sul Quarto livello derivano tutte dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino… mi sono occupato e mi occupo professionalmente della valutazioni delle sue dichiarazioni… (che sono) ancora oggetto di verifica». Bene, abbiamo verificato, anzi, ha verificato lui: ma questo non ha impedito ad Antonio Ingroia di scrivere un autentico «saggio introduttivo» imperniato interamente sulle dichiarazioni di un pataccaro, questo dopo aver dichiarato, poco tempo fa, che «l’attuale equilibrio politico e istituzionale è fondato sulle stragi del 1992».

Ma non toccategli tutto il resto. Massimo Ciancimino in oltre tre anni ha sputtanato uomini e galantuomini, centellinato accuse sull’universo mondo – da Berlusconi alla strage di Ustica, dalla cattura di Riina alla latitanza di Provenzano, da Milano 2 a Dell’Utri al caso Moro – senza risparmiare uomini delle istituzioni come il prefetto Gianni De Gennaro e il generale Mario Mori e il procuratore nazionale Pietro Grasso: ed è una fortuna che nessuno, tra costoro, fosse in eccellentissimi rapporti coi pm di Palermo: così siamo sicuri che i pm non avranno avuto problemi a indagare.

Detto questo, pare che alla procura di Palermo si stiano specializzando in pataccari da sfruttare soltanto sinché servono, salvo arrestarli o farli sparire quando la situazione si compromette. È stato così per Massimo Ciancimino ed è stato così – per chi non lo sapesse – per il pentito Vincenzo Scarantino, già protagonista di balle clamorose e purtroppo accreditate nel processo per la strage via D’Amelio: il pm Antonio Ingroia ha dapprima raccolto alcune deposizioni ai danni di Bruno Contrada e Silvio Berlusconi, ma poi puf, quando si è accorto che mancava ogni possibile riscontro non ha riversato i verbali dai fascicoli processuali e soprattutto non li ha riversati neppure nel fascicolo del pubblico ministero, sottraendolo così a ogni valutazione della difesa e omettendo ogni indagine a riguardo.

Il bello è che è lo stesso Ingroia a raccontare l’episodio. Nel suo recente libro «Nel Labirinto degli Dei», a pagina 81, si legge questo: «Avevo interrogato Vincenzo Scarantino, che si era autoaccusato di avere organizzato il furto della Fiat 126 usata come autobomba in via D’Amelio. Indagini più recenti della Procura di Caltanissetta sembrano, comunque, aver definitivamente smascherato Scarantino come depistatore e falso pentito». Esattamente come per Massimo Ciancimino, individuato come mistificatore a Caltanissetta ma dapprima sfruttato a Palermo per più di tre anni. Ingroia continua: «Interrogai Scarantino una sola volta… era stato lui a mettere sul piatto due temi di prova apparentemente appetitosi: nuove accuse a carico di Bruno Contrada, all’epoca già inquisito e in custodia cautelare per concorso esterno in associazione mafiosa; e, addirittura, dichiarazioni che coinvolgevano il già allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in oscure vicende di traffico di stupefacenti».

Roba pesante, dunque: c’era da indagare, dato il calibro dei personaggi interessati, sia per verificare la fondatezza delle dichiarazioni e sia per verificare, se infondate, quale manovra o depistamento fosse in corso. Ma la procura di Palermo si fermò al primo caso: «Le dichiarazioni a carico di Contrada erano apparentemente riscontrabili, quelle che riguardavano Berlusconi, invece, erano generiche e sostanzialmente indimostrabili… L’esito fu sconfortante… Non era stato acquisito alcun riscontro che si potesse considerare individualizzante a carico di Contrada». E di Berlusconi, ovviamente. Che fare? Ingroia nel parlò col contitolare del processo Contrada, il pm Alfredo Morvillo, e poi anche col capo della Procura Gian Carlo Caselli: «Decidemmo di non servirci delle sue dichiarazioni accusatorie. Esse pertanto non furono mai utilizzate né per il processo Contrada né nei confronti di Berlusconi».

Una buona ragione, evidentemente, per farle sparire. Al punto che anche Bruno Contrada e il suo legale, Giuseppe Lipera, nel gennaio scorso hanno appreso l’esistenza dell’interrogatorio di Scarantino direttamente dal libro di Ingroia: «Quanto ho letto mi ha destato stupore e sbigottimento», ha dichiarato Contrada, «poiché nel processo che mi riguarda non si parlò mai di accuse che Scarantino avrebbe rivolto nei miei confronti, né mai seppi di questa circostanza; ricordo benissimo che nel fascicolo del pm non c’era alcun atto riguardante un interrogatorio a Scarantino né successivi accertamenti della polizia giudiziaria». Ecco perché i due hanno deciso di presentare un esposto.

Nel libro di Ingroia oltretutto si legge che quelle dichiarazioni «non erano convincenti, come non lo era il teste», ma a quanto pare non fu fatta nessuna indagine per capire il motivo delle false accuse: chi le suggerì, e perché? A quando risalgono queste dichiarazioni? Perché non furono riversate nel fascicolo? Ingroia, nel libro, scrive di accertamenti negativi «sconfortanti» operati dalla polizia giudiziaria: che fine hanno fatto? E perché – come fece Falcone col pentito Pellegriti – non si è proceduto per calunnia contro il ballista? Senza contare che, nel caso di Contrada, stiamo parlando di un iter processuale che ha ribaltato di continuo sentenze di condanna e di assoluzione, laddove non c’è dichiarazione o testimonianza che non abbia pesato complessivamente sul piatto della bilancia: «Sarebbe stato un tassello importante per scoprire chi complottava nei miei confronti», si legge nell’esposto, «ma così si ha impedito alla difesa di esercitare tutte le azioni che avrebbero potuto chiarire il contesto in cui è maturata la vicenda giudiziaria che mi riguarda». Probabile che Ingroia avesse troppo da fare, in quel periodo: perso com’era nel «labirinto degli dei» prima ancora di perdersi in quello di Ciancimino.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera