Il genetista che raccoglie i pomodori

A maggio del 1990 mi trovavo per lavoro sulla costa calabrese, lato tirreno. Ero lì per controllare i danni prodotti da una calamità (è il mio lavoro ispettivo al MIPAAF). Credo che fosse la mia seconda o terza missione ispettiva e insomma me ne stavo sulla costa ad aspettare un collega che doveva arrivare da lì a poco in macchina e portarmi sulla Sila. Ricordo ancora il caldo e il mare, la luce bellissima. La brezza come un soffio diffondeva i fotoni, delicatamente e soavemente. Ma arriva il collega e l’incanto termina: noto la stonatura tra il mare, la luce bellissima, il caldo e il suo abbigliamento. Vestiva con un maglione e indossava il cappello. Ho pensato di tutto sui calabresi: chiusi, arcigni, insensibili. Ma non sentite caldo, chiesi al collega, appena entrato in macchina. Lui nemmeno mi rispose. Fatto sta che dopo svariate curve, cominciò a cambiare la luce e la temperatura. Dopo un tornante avvertii un brivido di freddo. Quando scesi su un pratone della Sila è come fossi sbarcato su un altro pianeta, c’era una sottile nebbia. Invidiai il maglione e il cappello del mio collega: non era affatto chiuso, arcigno ecc, conosceva bene il territorio. Italia: orografia speciale, un attimo e il microclima cambia. La cartina qui sotto può illustrare un aspetto del problema (o delle potenzialità) dell’agricoltura italiana: spesso si parla di agricoltura industriale (con disappunto) e di agricoltura locale (con grande enfasi), ma come vedete dalla cartina sono poche le zone dove è possibile praticare una (indispensabile e sostenibile) agricoltura industriale e molte le zone dove è difficile praticare agricoltura tout court: questo è un problema (per costi, investimenti, ecc.).

Nel gergo tecnico generalista a territori diversi corrispondono prodotti diversi. Difatti il nostro patrimonio gastronomico per lo meno non annoia. Abbiamo tanti (forse troppi e inutili) prodotti tipici. Risorsa o limite? Che sia l’una o l’altra cosa, di certo non si può pensare di risolvere i problemi della nostra agricoltura con un solo specifico trattamento: la Cipolla di Tropea non salverà la nostra agricoltura ma nemmeno si possono maltrattare specifici (e spesso ottimi) prodotti di nicchia (e i legami di comunità e sentimentali che formano). Luigi Frusciante è come me di origine campana. Io sono orgoglioso e spesso fideisticamente schierato in difesa di alcuni pomodori campani (soprattutto ho fede solo nella mozzarella di bufala casertana perché, appunto, sono ideologico). Luigi Frusciante tuttavia a differenza di me è un genetista e conosce benissimo (perché le studia da anni) le solanacee, e soprattutto parte del suo lavoro si è concentrato su alcuni prodotti tipici campani. Quindi con serietà e cognizione di causa (e con diversi studi pubblicati su importanti riviste ad alto impatto) ce ne può parlare.

Ciao, ti presenti?

Luigi Frusciante, professore ordinario di genetica agraria presso l’Ateneo Federico II di Napoli. Sono stato promotore dell’istituzione del corso di laurea in Viticoltura ed Enologia della Federico II, sede distaccata ad Avellino, e Presidente del medesimo per 6 anni.

Di cosa ti occupi?

Da sempre mi occupo di miglioramento genetico di alcune specie di interesse agrario: Solanacee e Leguminose. Sono membro della “SOL Steering Committee” per il sequenziamento delle Solanacee. Il mio gruppo ha contribuito in maniera significativa al sequenziamento del pomodoro, pubblicato su Nature nel 2012. A questo primo lavoro ne sono seguiti altri che hanno riguardato più da vicino il risequenziamento dei genomi degli ecotipi campani San Marzano e Vesuviano.

Com’è nato il tuo interesse per le solanacee?

La mia prima attività di ricerca, come borsista, iniziò proprio raccogliendo e caratterizzando ecotipi di San Marzano. All’epoca giravo per i campi di pomodoro dell’agro sarnese-nocerino, e più in generale del bacino di coltivazione del San Marzano: è stato per me una palestra fondamentale per proseguire gli studi e la ricerca.

Raccoglievi pomodori?

Eh sì. Nella seconda metà degli anni ’70, questo lavoro mi portò alla raccolta di più di 130 ecotipi di San Marzano nelle diverse aree di coltivazione, perché si riteneva che tutti i biotipi coltivati potessero essere diversi tra loro e rappresentare ciascuno un genotipo a sé stante. Ma la loro caratterizzazione, con gli strumenti di analisi del tempo, basata su analisi morfologiche, chimiche, tecnologiche e statistiche, consentì di ridurre il numero degli stessi a 6-7 ecotipi – poiché la maggior parte erano sinonimie, omonimie, dovute a scambi di semi tra agricoltori.

Nell’ambito di una specie che ha una stessa distribuzione geografica, mettiamo, appunto, l’Agro Sarnese, l’ecotipo è una varietà che si è adattata a un particolare ambiente: un sotto insieme di un insieme…allora che tipologie hai trovato?

In quel periodo le tipologie più importanti erano finalizzate o alla trasformazione industriale per la produzione di pelati (la maggior parte), oppure destinati al fresco, altra fetta del mercato del pomodoro campano. Successivamente gli ecotipi San Marzano si sono ulteriormente ridotti e il disciplinare per la definizione del DOP riconosce oggi un paio di tipologie. Ovviamente gli studi di genetica molecolare, e soprattutto l’avvento dei marcatori molecolari, hanno consentito di affinare ulteriormente la caratterizzazione, evidenziando come effettivamente l’ecotipo San Marzano potesse essere ricondotto ad una sola tipologia.

Di san Marzano ce n’è uno…

Come ti dicevo, nella prima decade del 2000 è iniziata l’epoca del sequenziamento delle specie ed io e il mio gruppo di ricerca abbiamo partecipato a quello del pomodoro. Il sequenziamento di questa solanacea ha rivelato una serie di informazioni che poi sono state utilizzate dai ricercatori di tutto il mondo per condurre ricerche specifiche. Comunque noi ci siamo concentrati sullo studio dei genotipi campani (San Marzano e Vesuviano) e abbiamo scoperto che questi presentano una differente plasticità fenotipica, in quanto esprimono il massimo del loro potenziale produttivo e qualitativo soltanto nell’area dell’agro sarnese-nocerino e nel vesuviano.

Esiste quindi una vocazione territoriale…Mi spieghi meglio la plasticità fenotipica?

I nostri recenti studi hanno dimostrato anche che la complessità delle interazioni tra il genotipo e l’ambiente fornisce indicazioni sui meccanismi che regolano la qualità dei frutti. Questi hanno un’importante implicazione nella trasformazione industriale dei pomodori (pelati, cubettati, passata etc.). Infatti, i risultati che abbiamo ottenuto mostrano come la risposta genomica del pomodoro ai fattori ambientali possa aiutare a comprendere meglio perché alcune varietà sono più resilienti e altre meno.

Che prospettive si aprono?

Si possono sviluppare nuovi programmi di selezione per ottenere varietà che rispondano meglio ai cambiamenti climatici. In base ai nostri studi, il genoma del pomodoro San Marzano ha mostrato di essere più reattivo ai cambiamenti ambientali se coltivato in aree diverse da quelle di origine. Questo accade poichè inizia ad attivare un maggior numero di geni per adattarsi alle nuove condizioni. Abbiamo anche rilevato come importanti sfumature della sapidità, tipica e rinomata del San Marzano, siano legate a significative differenze nell’espressione dei geni coinvolti nella sintesi dell’aspartato e del glutammato. Un dato significativo, questo, considerando che i cambiamenti climatici in corso potrebbero avere effetti importanti sugli areali di coltivazione del pomodoro e sulle proprietà chimiche e fisiche dei suoi frutti.

Possiamo cioè migliorare anche la qualità del pomodoro?

Assolutamente sì. Anzi, oggi possiamo fare di più: possiamo prima definire la destinazione d’uso (mercato fresco, pelati, passate, succhi etc.) e poi pensare al programma di miglioramento genetico. Possiamo esaltare alcune caratteristiche piuttosto che altre in funzione di quello che sarà la loro utilizzazione. Per esempio, se progettiamo un pomodoro destinato al mercato fresco, deve valorizzare alcune caratteristiche legate al sapore immediatamente percepito, quindi più zucchero, meno acidità, più vitamina C, più molecole che esaltano il gusto, mantenendolo nel tempo (shelf life). Per i pelati è fondamentale avere un pH basso che consenta di ridurre i tempi di sterilizzazione e ottenere così bacche integre nella confezione, avere maggiore contenuto in licopene e favorire tutte quelle molecole che non si degradano con le alte temperature. Abbiamo già visto come alcuni geni contribuiscano a esaltare alcune sostanze che impattano direttamente sul sapore del pomodoro, come aspartato e glutammato. Ovviamente è del tutto diverso il concetto di qualità per pomodori destinati alla produzione di succhi, in questo caso fondamentali sono i metaboliti secondari che favoriscono l’aroma.

Vorrei che mi raccontassi la storia (genetica e culturale) del San Marzano, ma prima mi togli una curiosità? Sono sicuro che non è solo una mia curiosità…davvero i pomodori non sanno più di niente? Prima sapevano di qualcosa? Da genetista che ne pensi?

Nessuno di noi, credo, pensa di poter ritornare al passato quando per andare alle scuole medie era necessario percorrere 5-6 chilometri a piedi, tutti i giorni, inverno ed estate, privilegio di cui io ho goduto, abitando in campagna… non so tu. Questo per dire come il passato venga mitizzato e scollato dalla realtà. I pomodori di una volta avevano caratteristiche qualitative più o meno simili (ad eccezione del San Marzano, di cui parleremo dopo), anche se si differenziavano moltissimo per forma, grandezza, colore etc. Infatti il panorama pomodoricolo italiano presentava centinaia di diversi tipi di pomodori coltivati in tutta Italia, a fronte di una variabilità genetica molto ristretta. Il fatto stesso che utilizzavamo la medesima tipologia di pomodoro per tutti gli usi culinari, deve farci pensare che essa era mediamente idonea per ogni uso. Forse c’è da dire che in passato le produzioni erano legate alla stagionalità e pertanto il pomodoro coltivato nel suo periodo ottimale manteneva caratteristiche inalterate negli anni, alimentando in noi l’abitudine a quel determinato sapore. Oggi, che la stagionalità è venuta meno, probabilmente è venuta meno anche la sensibilità al gusto. Anche oggi il pomodoro coltivato nel suo periodo naturale ha caratteristiche qualitative superiori rispetto a quelli prodotti fuori stagione. Da genetista posso aggiungere che le varietà che oggi coltiviamo presentano tratti qualitativi sicuramente superiori a quelle del passato, immaginiamo i pomodori che presentano maggiore quantità di licopene, di betacarotene, di vitamina C, resistenze a stress biotici ed abiotici, consistenza delle bacche, e così via.

Veniamo al San Marzano…

Oggi la coltivazione del pomodoro San Marzano è ridotta a poche decine di ettari e rappresenta una produzione di nicchia destinata a pochi estimatori, il resto è imitato, contraffatto, come ogni prodotto di successo. Peraltro la Campania non è più, da molti anni, la terra dell’ “oro rosso”. Le coltivazioni, infatti, si sono spostate in altre regioni e le varietà standard hanno lasciato posto agli ibridi, che rappresentano la sintesi delle conoscenze scientifiche acquisite con gli studi di genetica e genomica in pomodoro degli ultimi 20-30 anni. Oggi un ibrido di pomodoro può produrre fino a 2.000 q/ha, può essere raccolto meccanicamente perché le bacche maturano contemporaneamente sulla pianta e presentano una elevata consistenza che consente loro di resistere alle sollecitazioni meccaniche, sia durante la raccolta sia nel trasporto, e possono essere pelate meccanicamente, senza subire danni, così come tollerano molto bene le alte temperature di sterilizzazione.

Aspé…sono pomodori ottenuti con la tecniche del DNA ricombinante, sono OGM?

No. È solo il risultato degli studi che hanno consentito ai ricercatori di identificare i geni responsabili dei caratteri agronomici utili e ai breeder di combinarli in un unico genotipo, utilizzando le moderne tecniche di miglioramento genetico, come la selezione assistita, la selezione genomica e il genome editing. Oggi sono in commercio ibridi che presentano anche 6-7 resistenze a patogeni, sono tolleranti alle alte temperature, presentano un grado brix più alto, il che significa maggiori rese alla trasformazione ed in alcuni casi hanno anche una maggiore quantità di antiossidanti (licopene, betacarotene, vitamina C, etc.). Come vedi, pur trattandosi di super pomodori, non sono state utilizzate tecniche riconducibili all’ingegneria genetica, anche se queste ultime potrebbero essere molti utili in alcuni casi per il miglioramento varietale e non solo in pomodoro.

Questo è per la genetica, per la storia dell’agricoltura campana invece …

La coltivazione del pomodoro in Campania ha rappresentato un volano di sviluppo molto più importante di qualsiasi altra industria pesante o meccanica. Infatti, se ripercorriamo la sua storia, ci rendiamo conto dell’enorme contributo che essa ha dato allo sviluppo non solo della Campania, ma dell’intero Mezzogiorno. Quando Cirio, nella seconda metà dell’’800, implementò la prima industria di conserve, avviò la più grande rivoluzione industriale del Sud Italia. Cirio, da piemontese, è stato pioniere nella delocalizzazione delle attività e il primo a dotarsi di una piattaforma logistica, con sede a Castellammare, che consentiva alla società di esportare i propri prodotti in tutto il mondo. Cirio è stato anche pioniere nell’inventare una sorta di tracciabilità ante litteram, proponendo l’inscatolamento di pomodori interi, immediatamente riconoscibili, senza possibilità di frode alimentare, pratica abbastanza diffusa all’epoca come oggi. L’inizio del ‘900, con il completamento della bonifica dell’agro sarnese-nocerino e la messa a coltura di quel territorio, ha visto anche la nascita della coltivazione del San Marzano. Da dove sia venuto è una storia diversa e te la racconterò un’altra volta. L’avvento del San Marzano stravolge i sistemi produttivi sia agricoli sia industriali, inizia in questo periodo la produzione dei pelati, punto di forza dell’azienda, così come è stato per i successivi 70 anni. Le produzioni per ettaro balzano da una media di 70-80 q/ha (quintale per ettaro) ai 400-500 q/ha. Accanto all’industria di trasformazione nasce quella meccanica per la produzione di macchine per la lavorazione del pomodoro, nascono gli scatolifici. Le esportazioni di pelato raggiungono vette mai più raggiunte: negli anni ’20 si attestarono intorno alle 120.000 t/anno. Questo enorme successo ebbe anche riflessi dal punto di vista politico, in quanto a più riprese il Governo fu costretto a contingentare la trasformazione del pomodoro per evitare che la popolazione restasse senza prodotto e, nei periodi bellici, lo stesso limitava l’uso massiccio della banda stagnata.

Allora, domanda finale: vista la storia del San Marzano, i prodotti tipici sono una ricchezza o un limite?

Se esuliamo dal “sapere nostalgico”, ed entriamo nel merito di quella che è la produzione tipica del nostro Paese, possiamo ritenerla senz’altro una ricchezza. Non fosse altro perché ci consente di mantenere un’ampia biodiversità nell’ambito delle specie coltivate. Tipico però non deve essere confuso con arretratezza colturale e culturale. Fondamentale è anche considerare che chi produce prodotti di nicchia deve avere un reddito sufficiente per poter vivere, se non si vuole barare. E allora, come far convivere produzioni tipiche locali con modelli economici sostenibili? Probabilmente dobbiamo declinare i paradigmi dei nuovi modelli di sviluppo inventandoci nuove vie. Per esempio, una delle eccellenze campane è il pomodorino del piennolo del Vesuvio, la cui produzione è molto limitata, e quindi la sua distribuzione deve essere per forza circoscritta. Pertanto per valorizzare al meglio questa eccellenza vesuviana possiamo immaginare che gli spaghetti alle vongole con il pomodorino del piennolo debbano essere consumati in loco. Questo darebbe un ulteriore valore aggiunto al prodotto e a tutta l’economia locale, attirando turisti, curiosi e buongustai. Di questi prodotti di nicchia l’Italia, e in particolare il Sud, è piena e quindi teorizzare un’economia legata al territorio favorirebbe la crescita dello stesso e soprattutto educherebbe i produttori a non lasciarsi prendere dalla necessità di aumentare le produzioni, contraffacendo i prodotti, pur di restare nel mercato.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.