Il vestito della festa

Ogni tanto mi guardo la foto (poi vengo da lì): nonno Antonio vestito a festa. Contadino. Vita dura, due guerre, nessuna fortuna l’ha mai toccato, vari lutti e tanta fame. Poca roba (inservibile) da lasciare in eredità, e unico completo buono, quella della festa, appunto. Però, quando in paese arrivavano i tecnici agrari per illustrare le ultime novità agricole e ci si riuniva nella sala comunale, mio nonno entrava indossando il vestito della festa. La cultura doveva essere una dimensione sacrale. Nelle sale comunali si ascoltavano questi sacerdoti – benché tecnici – che parlavano di nuove forme di allevamento, concimi e calendario di trattamenti, macchine agricole e altro e ci si sentiva, almeno credo, inclusi in un processo di miglioramento collettivo: mio nonno e gli altri contadini del paese con la cultura mangiavano, altro che – un capitolo a parte andrebbe scritto sul rapporto intellettuali e campagne, ai tempi della lotta alla malaria, quando volontari socialisti e cattolici cercarono di far accettare il chinino.
Comunque, gli insegnamenti avevano qualcosa di pratico e verificabile, le piante producevano di più, il reddito migliorava. Per questo ci si metteva il vestito della festa. Chissà se abbiamo ancora in testa questo modello, un po’ per abitudine: gli intellettuali come sacerdoti laici e il pubblico vestito a festa che li ascolta.

Nonno Antonio

Tempo fa io e Amedeo abbiamo fatto una cosa, in gergo si chiamano conferenze spettacolo. Tema: dal big bang alla civiltà in sei immagini. Alla fine della serata una ragazza si è avvicinata e ha detto – aveva l’espressione rapita – che sì, si era molto emozionata. Meno male, questo genere di complimenti sono bene accetti. Siamo andati tutti a cena e, dopo i convenevoli, abbiamo appreso che la ragazza era un avvocato penalista. L’indomani aveva una causa – c’ha detto – molto seria e complicata e dunque di conseguenza per un po’ abbiamo discusso dei processi, di magistratura e insomma cose così. Tutto bene, finché lei ha detto: certo, una cosa manca nel vostro spettacolo: gli Anunnaki! Ho guardato Amedeo, pensando: abbiamo fatto una figura di merda, vedi? è uscito un nuovo fossile di homo, di quelli che riscrivono la storia dell’evoluzione e noi non lo sappiamo.

-Anunnaki?
-Sì, non conosci Mauro Biglino.
-Mauro Biglino… Mauro Biglino…

Dunque, Mauro Biglino è un autorevole traduttore della Bibbia – così diceva lei, poi non è proprio così- e da anni porta avanti questa pericolosa tesi (che tra l’altro è costata a Biglino minacce e censure varie): gli Anunnaki – ne è convinto Biglino – sono extraterrestri che millenni orsono hanno fatto visita al nostro pianeta. Dunque potrebbero aver dato una mano all’evoluzione dei sapiens. Ora, la ragazza aveva genitori e nonni contadini – del resto eravamo in un luogo ancora agricolo – e immagino che i suoi nonni come il mio indossassero il vestito della festa quando ascoltavano i tecnici e sono sicuro che con grandi sacrifici i suoi genitori l’avevano fatta studiare e lei era stata all’altezza dell’aspettative, subito laureata e subito al lavoro. Come mai il suo sistema di ragionamento, così ben funzionante su altre questioni, subiva un collasso sugli Anunnaki?
E come mai si era emozionata per il racconto del cammino dei sapiens e contemporaneamente credeva negli Anunnaki? Una cosa non dovrebbe escludere l’altra?

Naturalmente si è discusso. Più Amedeo, però. Io mi lagnavo con me stesso, in silenzio, perché non conoscevo gli Anunnaki, e sì che mi vanto ancora oggi di essere stato in gioventù un discreto ufologo. E alla fine lei ci ha accusati di a) poca curiosità: Biglino è uno serio e non si può parlare di un argomento senza averne conoscenza approfondita (giusto); b) di freddezza: racconti siffatti sono emozionanti e fanno sognare e allargano il campo della conoscenza. Invece noi con l’atteggiamento scettico restringiamo il campo al solo visibile e questo penalizza, appunto, la conoscenza. Poi sono stato sveglio tutta la notte e ho visitato un sacco di siti sugli Anunnaki.
Per completezza di informazioni devo dire che la ragazza era grillina – e qui si è scatenata tutta la mia idiosincrasia, e mi sono sentito bene, come se fossi approdato alla soluzione velocemente – ma poi è diventata del Pd, renziana – e qui non sapevo se scatenare la mia idiosincrasia verso il Pd oppure se farmi passare velocemente la voglia di scherzare.
Mi è rimasta la curiosità. Perché gli Anunnaki, sempre più spesso, fanno capolino nei discorsi, contaminano i ragionamenti di persone, che al contrario di mio nonno hanno studiato e tanto? C’è qualcosa di malato nel sistema di istruzione? O sono bias in fondo limitati e che vanno accettati in questo mondo veloce, pieno di informazioni e quindi difficile da decifrare?

Non so, ma l’accusa della ragazza, di ridurre la conoscenza al solo visibile, mi ha fatto tornare in mente Platone e la sua idea di libertà. L’uomo nasce libero. D’accordo, per sostenere la sua tesi Platone inserisce, attraverso il mito di Er, l’anima. Chissà se davvero ci credeva. Partiamo dall’inizio. All’inizio c’è la tragedia, c’è Edipo re, appunto: la tragedia per eccellenza. Prima scena: Edipo deve trovare la causa della peste a Tebe, cosa ha indispettito gli dei? Anni prima un oracolo prevede che a Tebe nascerà un bambino, ma il bambino una volta adulto ucciderà il padre e giacerà con la madre. Il re di Tebe ha un bambino e allora per scongiurare la profezia chiama un servo e gli dice: buttalo da una roccia. Ma il servo si impietosisce e lo lascia a un pastore, il pastore lo porta in un’altra città e lì viene accudito da un’altra famiglia. Edipo cresce poi gli prende il desiderio di conoscere la sua vera famiglia. Si mette in viaggio, sulla strada incontra un vecchio, litigano ed Edipo lo uccide, arriva a Tebe, risponde agli indovinelli, entra, sposa la regina e governa. Poi c’è la peste ed Edipo indaga, e cosa succede? Succede che scopre che quel vecchio che aveva ammazzato era suo padre e la regina è sua madre, la profezia si è avverata. Insomma più Edipo indaga, più scopre più conosce più si dimostra impotente davanti al suo destino, già scritto, già segnato. La conoscenza dunque non ci consente di avere margini di manovra, al contrario. Edipo più conosce meno margini di manovra ha a disposizione: può solo accettare il suo destino. Poi arriva Platone che vuole combattere contro quest’idea di destino. È interessante notare – sottolinea Franco Trabattoni in Libertà, libero arbitrio in Platone (Libero arbitrio, a cura di de Caro, Mori e Spinelli, Carocci editore), come per esempio cambia la parola daimon, demone. Daimon nei poemi omerici è sinonimo di theos, dio. E può comparire anche come sinonimo di destino, del resto pare che ci sia una relazione con il verbo datio, distribuire. Poi successivamente, a partire da Platone, il termine daimon diviene divinità di secondo grado. Che è un termine laico, cioè il destino si intende sia come potere che agisce all’interno dell’uomo, desideri, ambizioni, demoni interiori che costringono l’uomo, lo ingabbiano, sia come forza cosmica. Platone ha una missione: sfidare questa idea di destino. E come fa? Per prima cosa deve cercare di separare gli dei dagli uomini, gli dei non interferiscono nella vita degli uomini. Infatti il termine daimon viene accompagnato dal prefisso eu, e diventa eudaimon, letteralmente significa chi possiede un buon demone, in italiano è tradotto come felicità. Quindi Platone sostiene che agli uomini spetta il compito di scegliersi il proprio demone: perché l’uomo nasce libero, per questo inventa il mito di Er, l’anima (pura, non legate a forze materiali) sceglie il proprio destino – certo se tutto si riduce solo alla scelta iniziale… – questo comunque condiziona il processo, però Platone è interessato al mito perché vuole arrivare a dirci: abbiamo un’anima a cui tocca la prima scelta, siamo liberi, gli dei non interferiscono.

Che ce ne facciamo della libertà? Dobbiamo essere felici, cioè fare buone scelte, cioè contrastare i demoni interiori che ci impediscono di fare buone scelte. E come si fa? Con la pratica filosofica. Cioè una tecnica. Certo per Platone la tecnica restringe, e giustamente, la libertà. Un medico – Platone per bocca di Socrate, usa spesso esempi medici – non può usare tutte le tecniche per guarire un paziente, deve usare solo quella tecnica efficace: e solo con un metodo conoscitivo troveremo una tecnica efficace.
Quindi rispetto all’Edipo re, Platone è l’antitragico. Se Edipo più indaga, più conosce, più va incontro al suo destino – tra l’altro già scritto – Platone ci dice che con la filosofia possiamo cercare il nostro buon demone. Libertà è uguale a razionalità. La razionalità presuppone un metodo.
Tuttavia, restringendo la libertà, o comunque orientando lo sguardo verso una particolare tecnica, togliamo all’essere umano il sogno, la curiosità? A proposito di medici, così presenti nei dialoghi di Platone. Cos’è la téchne greca? Ce lo spiega Valentina Gazzanica (Dalla cura alla scienza, di Conforti, Corbellini, Gazzanica, EncycloMedia Publiscer): “una competenza in grado di ottenere un risultato pratico (il ristabilimento della salute) in base a un metodo che si fonda principalmente sul perché si agisce in un modo piuttosto che in un altro”. Però poi se guardiamo ai rimedi che la scuola di Ippocrate ha messo in atto, soprattutto a Roma, tagliare e bruciare e praticare il salasso, beh, si può capire l’avversione di Catone.

Siamo sempre lì: è difficile accettare una tecnica che, almeno all’apparenza, restringe il campo. Almeno, lo era, si trattava di conoscenza molto parziali. Ma ora, che viviamo a lungo, e siamo più alti, ora che stiamo meglio, che abbiamo tanto studiato e con più precisione delimitiamo il campo, questi Anunnaki, so’ proprio necessari? Dobbiamo considerali aneddoti divertenti da raccontare ai lettori del Post e sperare in un dibattito curioso?

Io la penserei così, e la farei finita subito, il mondo è pieno di bias e di credenti in senso lato. Però uno molto più serio di me, James R. Flynn, la pensa diversamente. La sua idea è: non pensiamo ai bias altrui, pensiamo a nostri bias, alla nostre stesse fallacie. Facile contestare gli Anunnaki, e ridurre le persone in comode caselle: le sirene, i microchips e le scie chimiche, ecc. ma siamo sicuro che noi stessi ragioniamo secondo una logica? E siamo sicuro che questa logica produca risultati utili?

James R. Flynn è noto per il cosiddetto effetto Flynn, l’aumento del QI (detto in breve). E ha una storia particolare. È un liberal americano, poi si è trasferito in Nuova Zelanda nel 1963. Nel 1969 legge gli studi di Arthur Jensen: i neri conseguono bassi punteggi nei test di intelligenza. Flynn come tutti gli intellettuali di sinistra rigetta i risultati, anzi si intestardisce, studia bene il metodo Jensen in cerca di pecche, e che ti scopre? Che non c’erano pecche, i risultati erano validi. Tuttavia non accetta l’ipotesi genetica, avanzata da Jensen. Studia ancora e che ti scopre: che è tutta colpa della povertà. Famiglie povere e numerose hanno risultati più scarsi rispetto alle famiglie mononucleari e ricche, nelle quali i genitori interagiscono più facilmente con i figli, sono più disponibili al dialogo, al confronto. Se l’avesse chiesto a mio nonno, povero e contadino, se gli avessero chiesto com’era il suo rapporto con il padre, la madre, i fratelli, mio nonno avrebbe risposto: certo che sto’ Jansen… la povertà è uno schifo.

Con il tempo e l’aumento del benessere sono cresciuti anche i punteggi nei test, e ora, neri e bianchi pari sono. Dunque la cultura – intesa come progresso – è fondamentale. E J.R. Flynn si dedica anima e corpo all’insegnamento, scrive libri molto belli, alcuni poetici (How to Defend Humane Ideals: Substitutes for Objectivity), attacca spesso la sinistra liberal, la trova poco scientifica e preda di astratti e magici furori, finché a un certo punto, dopo anni e anni di insegnamento e di lotte si chiede: ma io, ai miei studenti, in questi anni, che cosa ho insegnato?
È una questione seria, e dolorosa per lui. “Ho dato l’anima in 50 anni di insegnamento universitario, in luoghi che a vanno da Cornell e il Maryland in America, a Canterbury e Otago in Nuova Zelanda. Mi fa diventare matto il pensiero dei tanti giovani brillanti che frequentano le università con profitto, dei quali, una volta laureati, siamo costretti ad ammettere di non essere stati in gradi di insegnare loro a pensare. Nonostante le numerose conferenze e i tutorial, le ore spese a dare voti e fornire feedback, non credo di aver trasmesso ai miei studenti ciò che considero più prezioso nel mio modo di vedere la vita” .

Flynn si rende conto che la cultura anche se fa avanzare nei test non sempre è alla base di un corretto modo di ragionare, anzi una buona formazione culturale non garantisce l’assenza di bias, ognuno, in fondo, ha i suoi Anunnaki. Tuttavia, in un modello così fatto, buone opinioni uguale buoni politici uguale buona democrazia, è essenziale che la cultura sia razionale motore del sistema. Ma come si fa? Non tutto è ragione, limpida e cristallina, anzi quasi sempre senza emozione (e questa è impura, contaminata da demoni) non c’è ragionamento, quindi la razionalità alla maniera platonica presenta dei problemi. Ma non possiamo mica mollare, dunque, come si fa a usare l’emozione per promuovere il ragionamento e non, al contrario, spegnerlo?

Flynn allora scrive un libro: Osa pensare, venti concetti per capire criticamente e apprezzare la modernità, a cura di Corbellini (Mondadori Università, una casa editrice che sta pubblicando libri molto particolari). Quello che Flynn propone è sì arricchire il dibattito culturale – e farlo in qualunque sede, la scuola, le università, i circoli di partito, la rete e i talkshow televisivi– ma considerando sempre alcuni concetti chiave, senza i quali è facile cadere in bias, e trovarsi con gli Anunnaki in casa.
In sostanza si potrebbe semplificare il problema. La scuola non deve insegnare tutto, deve insegnare solo concetti chiave che aiutano a comprendere il mondo ed evidenziare i concetti antichiave che, al contrario, oscurano il ragionamento. I concetti chiave, sono tratti dalla filosofia morale, dalla biologia evolutiva, dalla matematica, dalla sociologia. Gli studenti dovranno affrontare, con le suddette chiavi, problemi pratici, raggiungere risultati, imparare a ragionare in modo logico, accorgersi delle pericolose deviazioni illogiche. I risultati dovranno essere analizzati e verificati.

Ecco le chiavi.
• Universabilità (1785, Kant, filosofia morale) – se si afferma un principio morale, bisogna, poi, sostenerlo con la logica;
• Tautologia/falsificabilità (1800, logica) – per non abusare della logica quando la usiamo per difendere in maniera fraudolenta qualcosa;
• Fallacia naturalistica (1903, filosofia morale) – non argomentare partendo dai fatti per arrivare ai valori;
• Fallacia della scuola della tolleranza (200, filosofia morale) – la tolleranza non sempre è una virtù suprema;
• Il campione casuale (1877, sociologia) – selezionare i campioni in base al caso.
• Il quoziente intellettivo (1912, sociologia) per valutare il QI bisogna conoscere cosa sia una correlazione e affrontare il concetto di regressione verso la media;
• Effetto Placebo (1938, medicina) – senza la nozione di placebo, una razionale politica di gestione dei prodotti farmacologici si scontrerebbe con il disperato desiderio di una cura da parte di chi è colpito da una malattia;
• Effetto Carisma – quando una teoria viene applicata da un carismatico innovatore o da suoi discepoli infiammati da zelo, il suo successo potrebbe essere dovuto proprio a questo fattore.
• Gruppo di Controllo (1875, sociologia);
• La Fallacia del sociologo (1973, sociologia) – nel confrontare fra loro gruppo apparentemente omogenei, bisogna prestare attenzione che i suddetti gruppi potrebbero appartenere a un insieme più ampio;
• Percentuale o proporzione (1860, matematica) – senza il concetto di percentuale e di proporzione non si riesce a valutare il rischio;
• Mercato (1776, economia).
• L’interesse nazionale (sociologia) – per comprendere davvero l’operato e gli atteggiamenti di una persona, è necessario farsi almeno tre domande: a) che cosa determina il suo comportamento? b) persegue sempre il suo interesse? c) è mosso da altri fattori quali amicizia/inimicizia?
• Le affinità nazionali (sociologia)
• L’identità nazionale (sociologia).

Poi vengono le antichiavi:

• La realtà è un testo – un’antichiave che ci distrae dal compito della scienza: la decodifica del mondo reale;
• Le storie alternative (e ci sono anche gli Anunnaki);
• Le scienze alternative;
• Il progetto intelligente.

Sono concetti facili da elencare, ma molto difficili da praticare. Comunque, sarebbe già tanto se, un po’ per pratica un po’ per frequentazione delle suddette chiavi, imparassimo a riconoscere il bias che rovina il ragionamento. In fondo, se qualcuno mi dice, Gonzalo Higuain è un ottimo difensore io avrei problemi a discutere di calcio con il mio interlocutore. Così, apprendere i suddetti concetti chiave potrebbe portarci a individuare velocemente gli errori di logica o quelli dovuti a incompetenza. Ancora più difficile tuttavia è farlo su se stessi. Come dire, la cultura non prevede più sacerdoti o altro, non è più (solo) un’arma per attaccare gli altri, ma la vera cultura è combattere contro sé stessi. E qui torniamo a Platone. Con anima e senza, non importa. Quando chiedevano a Socrate chi non fosse adatto alla filosofia, la risposta era: chi ha molta considerazione della propria doxa.

Eppure c’è dell’altro. Appunto, non tutto è ragione. Come si fa, per esempio, a garantire emozione e far sentire la passione per la ricerca quando si parla di cose come “campione statistico”, o “gruppo di controllo” o di “effetto placebo”, tanto per citare alcuni concetti chiavi elencati da Flynn? È chiaro che poi si impongono gli Anunnaki.
Bisognerebbe far sentire la differenza, ed è una questione di narrazione. Cioè far passare l’idea – e dunque dei sentimenti, un senso di meraviglia, uno stupore, un semplice desiderio di contemplazione – che la comprensione della realtà, le sue leggi, diciamo l’infinita bellezza della natura, insomma tutta la procedura di scoperta e verifica, è così affascinante da non aver paragoni con gli Anunnaki. Loro sono più banali, provinciali, mediocri, mentre il solo studio di Darwin, proprio perché nasce dall’osservazione e si fonda sul rigore metodologico, è infinitamente più emozionante. È una questione di narrazione? E dunque nuovi maestri di narrazione – nelle scuole, nelle università, nei talk show, dei commenti in rete – dovrebbero condurre il gioco?

Ma questa civiltà così evoluta degli Anunnaki, non ci poteva fornire da subito gli strumenti interpretativi del mondo, e visto che c’erano, evitarci tutto questo sbattimento, i bias e compagnia cantante? Mah?

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.