Manifesto del partito dei fisiologi

Avete presente i buoni e cari testimoni di Geova? Quelli che bussano di sabato mattina alle vostre porte con la sola intenzione di atterrirvi. E convertirvi. Quelli che forti della loro rivista, Torre di Guardia, o Svegliatevi, vi parlano dell’imminente fine del mondo? Usano una procedura standard. Partono da un modello ideale, generalmente un’immagine che raffigura il creato incontaminato e di seguito vi mostrano cosa abbiamo combinato al mondo: ciminiere che sbuffano, armi nucleari in agguato, smog, inquinamento, manipolazione genetica. Insomma, i testimoni di Geova sono quelli che affrontano problemi complessi, la cui trattazione richiederebbe competenza e analisi, in maniera semplice e evocativa. Uniscono cose distanti tra loro senza provare il nesso che dovrebbe unirle. E funziona. Il metodo qualche volta ti seduce e può capitare che per un attimo ti senti impaurito e in balia del male. Tutto fa rima con tutto. Siamo quindi sull’orlo del baratro.

Poi ti riprendi e magari fai appello alla tua coscienza laica. Chiedi un minuto per organizzare i pensieri e valutare i singoli elementi in gioco. Ebbene, i Testimoni di Geova hanno fatto scuola. È facilmente dimostrabile infatti che una delle tentazioni che più ci seducono in questi anni è la retorica dell’apocalisse. Tipico atteggiamento da intellettuale, benestante e occidentale. Anche qui, procedura standard. Si proclama con molta facilità l’imminente fine del mondo. Ognuno secondo i suoi gusti e le sue esigenze sceglie di scagliarsi contro qualcuno o qualcosa. La retorica dell’apocalisse predilige i paragoni estremi e a effetto: gli ogm sono come la bomba atomica (Rifkin), le multinazionali controllano il pianeta (generalmente i letterati), il cambiamento climatico causerà da qui a pochi anni la desertificazione delle coste tirreniche. La retorica dell’apocalisse, oltre a rivelare un atteggiamento vanitoso (essere così bravi da vedere la fine del mondo), focalizza l’attenzione esclusivamente sulla patologia. Niente, soprattutto a noi italiani, fa più piacere della patologia. Commentare il danno già fatto è inebriante, ci fa sentire superiori, del tipo: te l’avevo detto io. Di contro, pochi si interessano alla fisiologia: sapere come funzionano le cose non suscita grande entusiasmo. Quando la fine del mondo è vicina, non resta che convertirsi al più presto per salvare la pelle, e infatti l’apocalisse è parente stretta, quasi gemella, dell’integralismo. In più, la retorica dell’apocalisse ci costringe sulla difensiva e quindi elaboriamo una sorta di io minimo.

C’è una altra questione da considerare. Chi usa e abusa della retorica dell’apocalisse, preferisce esagerare con gli aggettivi, perché poi risulta più facile proporre la soluzione. Nel senso che storditi come siamo dal bagliore della distruzione, tendiamo a credere che esista una soluzione immediata, semplice e a portata di mano. Si tratta quasi sempre di soluzioni che fanno leva sui nostri istinti religiosi, che ci portano a credere che basti la parola magica e tutto si risolverà. C’è la crisi energetica? Bene, l’idrogeno è la soluzione. Troppi veleni nei campi? Non preoccupatevi, basta la parola biologico e tutto si risolve. Gli allevamenti industriali sono orribili? Torniamo a pascolare all’aperto. Troppe macchine, usiamo i cammelli (Vandana Shiva).

Che effetto può avere su persone giovani questo atteggiamento? Di solito le persone smettono di studiare, di analizzare, di vagliare, smettono insomma di conoscere e interpretare e sostituiscono la passione con l’ideologia. Ai ragionamenti laici, caso per caso, alla (difficile) ricerca della giusta misura, si sostituiscono smisurati concetti massimalisti. Quindi, di volta in volta, si assiste non alla elaborazione di un bilancio dettagliato costi/benefici, (gestire un costo richiede competenza, non perdere un beneficio richiede invece attenzione costante) ma a una specie di scontro di civiltà in miniatura, lotta ad eliminazione, a tu o io. O nucleare o energie alternative. Non c’è scelta. Senza se e senza ma. È in gioco la sopravvivenza del mondo!

Di fronte a una suggestione così diffusa, è necessario riscoprire due modus operandi: la fisiologia e la filologia. Essere fisiologi significa innanzitutto sapere come funzionano le cose. Spesso è proprio la nostra ignoranza sul funzionamento di un sistema a produrre danni e distorsioni. La filologia è ancora più necessaria: è di fondamentale importanza per ogni processo conoscitivo e dunque per una buona valutazione delle scelte, sapere ragionare sulle fonti. Per conoscere il presente bisogna essere archeologi e non nostalgici. Come ci mancano i filologi. Quelle persone che parlano solo dopo aver studiato attentamente i documenti – quelle persone che sanno leggere un documento scientifico – quelle persone, ancora, che non hanno paura di ragionare sui dati a loro disposizione. Se avessimo più fisiologi e filologi, di sicuro la nostra comprensione del mondo migliorerebbe. Sarebbe bello che i giornalisti scrivessero un articolo dopo aver ben studiato o perlomeno consultate le fonti. Così non è. Spesso, queste elementari regole, matrici di ogni processo conoscitivo, sono eluse.

Insomma, il fisiologo e filologo è quello che cerca di ragionare fornendo per prima cosa un insieme di riferimento credibile e poi analizzare le questioni caso per caso. Il retore dell’apocalisse dice: “biologico”, il fisiologo filologo, non vi dirà mai: “è inutile”, ma vi mostrerà, per esempio, come e perché (in base a leggi fisiche e chimiche), la farina proveniente da grano biologico è meno ricca di glutine, dunque assorbe meno acqua ed è, in gergo “più debole”, ovvero meno adatta alla panificazione. Vi mostrerà come le vecchie macine di pietra di una volta – che alcuni teorici del ritorno al “selvaggio”, al “naturale” consiglierebbero – sono meno adatte, rispetto ai moderni molini, alla panificazione. E non perché il fisiologo filologo sia pregiudizialmente contro il biologico ma perché usa strumenti tecnici e, aggiungerei, laici, per fornire a noi che leggiamo una misurazione di certo non definitiva, ma più precisa. Se ci fossero più persone così (in realtà ci sono ma hanno poca voce in capitolo e questo è un appello affinché costituiscano un’associazione autorevole e ben presente) molte questioni sarebbero a tutti più chiare, avremmo a disposizione dei parametri di misura e quindi perlomeno potremmo prenderci il gusto di fare una scelta senza preoccuparsi della prossima apocalisse.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.