Being Matteo Renzi

Lo sappiamo tutti ma facciamo finta di niente. Silvio Berlusconi non solo ha governato l’Italia per quasi un ventennio, ma ha definito un’antropologia politica con la quale il nostro paese farà i conti per molto tempo dopo di lui. Ha cambiato una volta per tutte la grammatica della rappresentanza e del linguaggio politico, insieme alle aspettative positive e negative dell’elettorato sia di centrodestra che di centrosinistra. Il che non significa soltanto che non sarà mai più possibile tornare ad un’ormai mitologica “età del pre-Silvio”, ma soprattutto che chiunque si candiderà dopo di lui a guidare la sinistra (e forse l’Italia) dovrà essere qualcuno che sia politicamente nato e cresciuto durante il suo tempo.

Non penso ai possibili “traghettatori”, che sono numerosi e che giocheranno ciascuno una partita diversa per chiudere la transizione. Penso a colui o colei che potrà svolgere una funzione di leadership stabile e stabilizzatrice nel centrosinistra e nel paese di qui a cinque/dieci anni. Quel leader sarà comunque un “figlio di Silvio” perché dovrà innanzitutto farsi capire da una nazione che negli ultimi vent’anni ha metabolizzato un altro linguaggio politico. E dovrà quindi tradurre in quella lingua i contenuti del progressismo italiano. Matteo Renzi ha tutti i numeri per farlo, per virtù e per fortuna. Ma soprattutto perché è nato e cresciuto nell’era berlusconiana, comprendendo meglio di altri della sua generazione i nuovi meccanismi della leadership e della rappresentanza. Le reazioni alla sua visita a Berlusconi, del tutto legittima sia nella forma che nella sostanza, si appuntano sul “luogo Arcore” ma riguardano il merito più profondo del suo essere per l’appunto un “figlio di Silvio”. È solo l’anticipo di un conflitto destinato a ripetersi con sempre maggiore intensità via via che ci avvicineremo al definitivo declino di Berlusconi, quando discuteremo soprattutto di quale tasso di berlusconismo sia accettabile nel profilo chi si candiderà alla leadership del post-berlusconismo.

Renzi farebbe bene ad affrontare di petto questo punto, contro coloro che in fondo lo avrebbero accusato anche se avesse incontrato Berlusconi in Vaticano, piuttosto che limitarsi a difendere al meglio il suo ruolo di sindaco di Firenze. Anche perché sa perfettamente che prima o poi dovrà usare fino in fondo questa sua caratteristica potenzialmente vittoriosa.
C’è anche dell’altro, e di meno strategico, nella discussione sulla “visita di Matteo a Silvio”. In particolare alcune debolezze dell’operazione “Stazione Leopolda”, il cui meritato successo è stato soprattutto nell’avere dato il senso di un sommovimento interno al PD. In un partito immobile fino all’autolesionismo, anche il solo gesto di muoversi in tanti ha significato molto verso un circolo della militanza e dell’opinionismo che ormai ha finito le parole per descrivere la penosa bonaccia che avvolge il centrosinistra.

Ma l’operazione Leopolda ha detto molto più dello stato in cui versa il PD di quanto non abbia detto della direzione propriamente politica che intende prendere Matteo Renzi. Se il Sindaco di Firenze era e rimane un riformista liberale insediato al cuore del centrosinistra (ed è questa la ragione per cui è sempre piaciuto al sottoscritto), alla Leopolda se ne sono ascoltate di tutte e di più. Pippo Civati ha del tutto legittimamente volto il suo potenziale personale e di mobilitazione verso il vendolismo, anche perché il radicamento territoriale che ne ha sempre fatto la forza gli dice che Vendola e i suoi contenuti si stanno facendo strada con molta rapidità. Altri hanno mescolato i classici temi del minoritarismo radicale tra le rivendicazioni più disparate, con il risultato di confezionare un’offerta politica complessivamente fumosa. E dove manca la politica, per quanto visibile sia il movimento (soprattutto se tutt’intorno regna l’immobilismo), basta un niente perché scatti l’intimazione moralistica alla purezza morale. Nessun vero pericolo per Renzi e il suo percorso di lungo periodo, che rimane forte di qualità strutturali che prima o poi ne faranno il vero candidato alla leadership post-berlusconiana. Ma il “figlio di Silvio” dovrebbe, più prima che poi, decidere di giocare fino in fondo questa sua carta decisiva. Muovendosi forse meno, ma affinando con più precisione un profilo politico di grande potenzialità.

Andrea Romano

Andrea Romano, nato a Livorno nel 1967, insegna Storia contemporanea a Roma Tor Vergata e cura la saggistica della Marsilio editori. Nel 2013 è stato eletto alla Camera dei Deputati per Scelta Civica. Twitter: @andrearomano9