Modesta proposta: eleggiamo solo immigrati

Le nostri classi dirigenti non ci piacciono. E tuttavia i rappresentanti somigliano sempre ai rappresentati, è difficile liquidare la “casta” come se fosse altro da noi, come se non esistesse in virtù di un particolare rapporto fra governanti e governati.
La storia politica del nostro Paese è la storia dei partiti. Sono i partiti che dettano ai costituenti la Costituzione “più bella del mondo”, a loro uso e consumo. Sono i partiti che intermediano consenso e spesa pubblica per tutta la cosidetta “prima repubblica”. Con Tangentopoli, i partiti tradizionali muoiono o si trasformano radicalmente, le ideologie vengono frettolosamente liquidate, ma il rapporto fra offerta e domanda di politica cambia davvero?

Possiamo leggere la relazione fra offerta e domanda “di politica” sotto due profili.
In parte, il successo storico della democrazia si spiega col fatto che essa è un gioco – come calcio o rubabandiera. C’è un bisogno umano fondamentale, ed è quello di sciogliersi in bande, tifare per la squadra del cuore, essere “con” e “contro” qualcuno. È un bisogno cui la nostra democrazia risponde perfettamente – e a questa sua funzione fondamentale, la scomparsa delle ideologie non ha nuociuto affatto Abbiamo semplicemente sostituito a un catalogo più o meno organizzato di idee una persona, e ci siamo esercitati a dividerci, quelli che meno male che Silvio c’è e gli altri.

In parte, la storia ha insegnato agli italiani a vedere nel detentore pro tempore del potere politico, sia nazionale oppure locale, un dispensatore di favori piccoli e grandi. Anche nelle migliori famiglie, quelle che dalla politica stanno ben lontane, il potere salvifico della raccomandazione è oggetto di venerazione. Le relazioni contano dappertutto: ma da noi contano sopra tutto. È l’eredità più viva di settant’anni di statalismo feroce, nei quali non c’è stato anfratto della nostra economia che non sia stato, in un momento o nell’altro, presidiato dallo Stato. Ciò ha alimentato la capacità della classe politica di dispensare aiuti, e parallelamente ha cementato la domanda per quegli stessi aiuti.
Se l’incrocio di domanda e offerta politica è condizionato dall’una cosa e dall’altra, dal nostro bisogno di dividerci e dallo scambio fra sostegno e consenso, siamo serenamente fritti. Un dibattito politico più ponderato resterà un sogno.

Mi permetto di avanzare una modesta proposta, che di per sé non cambierebbe le cose, ma almeno potrebbe consentire il cambiamento. Nella migliore tradizione delle modeste proposte, non c’è possibilità che venga attuata. Tant’è. Questo è un blog, mica si fa la storia.
La modesta proposta è la seguente: limitiamo l’elettorato passivo a cittadini italiani la cui famiglia non sia di nazionalità italiana da più di due generazioni. Il suffragio universale non si tocca: votano tutti i maggiorenni, perfettamente uguali gli uni agli altri in quanto elettori. Ma possono essere eletti soltanto i cittadini italiani dei quali almeno tre nonni su quattro non avevano passaporto italiano.

Perché? Il primo pregio di una proposta del genere è che, se mai la classe politica dovesse mandarla giù a forza, si accompagnerebbe ipso facto a una vistosa riduzione delle cariche elettive disponibili. Ridurre i costi della politica (abolire le province, ridurre i parlamentari) è una cosa che può fare soltanto un Parlamento i cui membri non abbiano nessuna chance di essere rieletti: non si può pretendere che i nostri politici facciano harakiri, inibendosi future possibilità di impiego. Ma potrebbero ragionare diversamente, se per loro fosse l’ultimo giro.

Il secondo pregio di questa proposta è che non leverebbe a nessuno il piacere di essere fazioso, il divertimento della democrazia come sport. Ma porrebbe un po’ di distanza, fra tifosi e giocatori. I nuovi italiani sono italiani, ma anche “nuovi”: presumibilmente, cioè, sono meno inseriti in quell’incastro di amicizie, complicità e, simmetricamente, rivalità che è il nostro Paese. Dovendo scegliere fra candidati che ci assomigliano di meno di quelli cui siamo abituati, probabilmente lo spirito di parte si smorzerebbe. Questo potrebbe servire agli elettori a riguadagnare un po’ di lucidità, e magari a giudicare con maggiore obiettività il gioco della squadra avversaria.

Il terzo pregio è che per l’appunto si porrebbero le basi per diluire il peso delle relazioni nel nostro Paese. Lobbisti e brasseur d’affaires non ci metterebbero molto, ovviamente, a prendere sotto braccio le persone giuste. Ma quella vasta e diffusa catena di clientele piccole e grandi, quel network di mani che lavano altre mani che oggi è, diffusamente, la politica in buona parte del nostro Paese, ne avrebbe un colpo mortale.

Si dirà: agli interessi che oggi condizionano la vita del Paese, e che inamovibili si nutrono della biada pubblica, se ne sostituirebbero solo degli altri. I “nuovi italiani” si approprierebbero di risorse e spazi a proprio vantaggio esclusivo. Non è così automatico. Un po’ perché buona parte dei “nuovi italiani” sono persone che hanno scommesso molto, in alcuni casi la pelle, per avere la possibilità di una vita migliore. Non è escluso siano allora meno avversi a tutelare quelle condizioni di base che la consentono (la certezza del diritto, un minimo di libertà per imprese e attori economici, fuori dalla cappa del capitalismo di relazione). Un po’ perché comunque il corpo elettorale sarebbe quello attuale, ed è improbabile che consenta la formazione di una nuova camarilla, unita soltanto dall’essere arrivata nel Belpaese relativamente da poco. È forse un rischio, questo, sul quale gli elettori eserciterebbero una funzione essenziale in ogni società libera: vigilare su chi li governa. Lo dovrebbero fare sempre, se ne dimenticano volentieri non appena i “campioni” con cui si identificano raggiungono le stanze del potere.

Qualcuno sosterrà che è una proposta non solo irrealizzabile, ma profondamente disfattista, maturata nella convinzione che l’unico modo di avere una politica decente nel nostro Paese è limitarne l’accesso a chi italiano non lo è ancora del tutto. Che devo dirvi? È così.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.