I ricchi piagnucolanti

Ancora una volta Papa Francesco, l’immenso Papa Francesco, è tornato a condannare l’idolatria del denaro. Lo ha fatto ieri in piazza San Pietro gremita di catechisti provenienti da tutto il mondo: «Se il denaro, la mondanità diventano centro della vita ci afferrano, ci possiedono e noi perdiamo la nostra stessa identità di uomini. Mai adagiarsi ad avere, si diventa nullità».
Lo aveva fatto anche due settimane fa nel corso della sua visita a Cagliari: «Bisogna lottare contro un sistema economico senza etica che idolatra il denaro e scarta le persone».
E ancor più perentorio e circostanziato era stato il giorno precedente durante la messa a Santa Marta: «Il denaro ammala il pensiero, ammala la fede, se scegli la via del denaro alla fine sarai un corrotto, il denaro è come una seduzione che ha il potere di farti scivolare lentamente nella tua perdizione. I primi padri della Chiesa, parlo del secolo terzo più o meno, dicevano una parola forte, il denaro è lo sterco del diavolo. Dalla ricerca di potere e ricchezze vengono parole oziose, discussioni inutili e ne nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità che considerano la religione come fonte di guadagno».

A leggere e rileggere parole così chiare e inequivoche non si può non pensare, per contrapposizione, ai balbettii della politica e, in particolare, del centrosinistra quando si tratta di affrontare il tema tabù dei soldi (nel centrodestra tutto è più semplice: di solito, basta che qualcuno metta in discussione il concetto di ricchezza, se la cavano subito evocando il qualunquismo, la demagogia e, naturalmente, il comunismo). Si sente ancora l’eco della polemica di inizio anno contro Nichi Vendola perché si era permesso di «mandare al diavolo i super ricchi» sull’onda delle polemiche suscitate dalla decisione di Gerard Depardieu di prendersi il passaporto russo per non pagare le alte tasse volute da Hollande sui patrimoni più cospicui. Prevedibile il repertorio centrista alla Casini: «Quello di Vendola è un frasario e una terminologia marxista-leninista di settant’anni fa». Ma altrettanto scontato quello progressista alla Veltroni e Morando che ogni due per tre citano Olof Palme: «La sinistra deve combattere la povertà, non i ricchi». Una frase ormai vuota e priva di senso, come se povertà e ricchezza non fossero due facce della stessa medaglia, come se, per dirne alcune, non vi fosse relazione tra la circostanza che i tre individui più ricchi del mondo possiedono quanto 600 milioni di persone nei Paesi meno sviluppati, come se fosse un caso che un decimo della ricchezza francese è in mano a un centomillesimo della popolazione, come se risultasse irrilevante che il Paese più ricco, il Qatar (lo stesso nel quale oggi si scoprono terribili storie di sfruttamento) vantasse un reddito procapite 428 volte più alto del Paese più povero, lo Zimbabwe.

È ormai acclarato che la cosiddetta trickle-down economics (economia dell’effetto a cascata) è stata screditata, che si sono rivelate fallimentari le teorie economiche che sostenevano che se i ricchi hanno più soldi ne conseguirà un vantaggio per tutti, che rimane solo una suggestiva metafora quella, usata da Reagan per propugnare la sua visione liberista, dell’alta marea che quando sale solleva tutte le barche, dal mega yacht alla barchetta del pescatore. «Quello che l’America sta vivendo in questi ultimi anni» non si stanca di ripetere il Nobel Joseph Stiglitz, «è l’opposto dell’economia dell’effetto a cascata: le ricchezze accumulate dai più ricchi sono state ottenute a scapito di quelle ricevute dai meno abbienti». Ma lo stesso vale praticamente ovunque e, ovviamente, in Italia. E la prova, inconfutabile, sta nel fatto che chi si lamenta di più in questo nostro Paese già per sua natura diffusamente incline al piagnisteo (salvo, dopo il “chiagnere”, fo…), sono proprio i ricchi. Una sorta di piramide rovesciata. Più accumulano, più si lamentano perché hanno paura di perdere ciò che hanno accumulato.

Già nell’ormai lontano 1997, in un lungo articolo intitolato Il lamento dei poveri ricchi, Michele Serra scriveva su Repubblica: «Molti dei ricchi italiani che sentiamo lamentarsi e pietire di continuo, arroccati attorno al loro reddito come se fosse la fame, e non un piccolo arretramento da posizioni forti, lo spettro che li perseguita, non ragionano come poveri solo perché non sono riusciti a emanciparsi da una mentalità assistenziale (tutti mi devono qualcosa, niente devo ad alcuno). Ragionano come poveri perché è realmente povero, e forse addirittura impoverito negli ultimi anni, il campo cui è affidata la loro realizzazione umana, la loro possibile serenità».

Proseguiva poi riprendendo un frammento del resoconto pubblicato sulla rivista Il Diario di un viaggio con un facoltoso industriale del Veneto realizzato dal giornalista Gianni Marsili: «L’uomo vive in una grande villa, ha molto denaro, è stimato nel suo lavoro e gira l’Europa da libero e da vincitore. Ma trascorre le lunghe ore del viaggio borbottando e lamentandosi di continuo, elencando non le tappe della sua fortuna, ma i trabocchetti che il futuro gli ha disseminato davanti. Parla solo di soldi, con ossessionata, disperata monotonia, individuando in ogni tassa un sopruso, in ogni politica o uomo politico un potenziale nemico».

Quindi concludeva Serra: «Certo, se ragionare su queste cose vuol dire sentirsi dire che si vuole criminalizzare il denaro e il profitto, che si è ancora e per sempre vittime del moralismo cattolico o comunista, allora tanto varrebbe non parlarne più. Ma è la ricchezza stessa, così come si manifesta oggi, che chiede di parlare di lei. Perché in ogni lamentela, anche la più aggressiva e irriflessiva, c’è prima di tutto una richiesta di aiuto». La penso esattamente così anch’io. E una simile richiesta d’aiuto porta dritto a quanto sostiene oggi Papa Francesco.

Enrico Letta ieri, in visita alla comunità di Sant’Egidio, ha invocato una preghiera per l’Italia. Faccio mia quella “Smisurata” di Fabrizio De Andrè, che a un certo punto recita: «Coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta, come una malattia, come una sfortuna, come un’anestesia, come un’abitudine».
Proprio come sostiene papa Francesco: «Mai adagiarsi ad avere, si diventa nullità».

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com