Cosa significa lo scontro tra Renzi e Floris in tv

«In questo paese tutti fanno sacrifici, chiediamo alla Rai di fare la sua parte: caro Floris mi dispiace. ma tocca anche a voi». Applausi. Il conduttore manda giù, visibilmente scocciato. Già, perché quella è casa sua – almeno, lui la concepisce così – e l’applauso del suo pubblico suggella in favore dell’ospite uno scambio per molti versi sbalorditivo, che è riuscito a creare un precedente perfino nel luogo del già visto per definizione, cioè il talk show televisivo.
Di interviste puntute e anche antipatizzanti se ne sono viste tante, Renzi è abituato, sono l’anima del buon giornalismo. Ma quello di martedì sera su RaiTre in realtà è stato uno scontro tutto politico, fra i leader di due partiti non candidati alle elezioni.
Giovanni Floris come portavoce del partito Rai, schieramento una volta fortissimo che non concepisce una sinistra politica che invece di blandirlo e imbastire scambi di favori cerca di prendere di petto l’elefantiasi aziendale come fa con tutti gli altri angoli dello spreco di denaro pubblico. E dall’altra parte Matteo Renzi, tornato per una sera (senza averlo pianificato) nella veste di iconoclasta, irrispettoso verso i miti e i riti di qualsiasi establishment, col gusto particolare di recitare la parte in una trasmissione, in una rete e in un’azienda dove la sinistra si considera di casa, e che a sua volta considera la sinistra casa e cosa sua.

Messo di fronte all’incredibile prospettiva di una cura dimagrante, il partito Rai nelle sue innumerevoli propaggini sindacali e col suo portavoce d’occasione reagisce a Renzi scaricandogli addosso il più classico dei teoremi: siccome sta inciuciando con Berlusconi sulle riforme, vuole semplicemente regalare al suo complice un vantaggio nella competizione televisiva.
Teorema anacronistico, risalente a quando sulla scena davvero c’erano solo due attori e l’ircocervo Raiset poteva gonfiarsi a dismisura, drogato da canone e duopolio pubblicitario. Ma anche ricatto ideologico e moraleggiante, tanto più fastidioso in quanto usato per tutelare, insieme e dietro ai diritti di chi lavora nell’azienda pubblica, i privilegi di chi da dentro e da fuori le succhia risorse.

C’è un punto che i conduttori, e i giornalisti in generale, sottovalutano. Floris potrebbe farselo spiegare da Michele Santoro.
Perché appena pochi giorni fa il suo collega Santoro s’è trovato inopinatamente scomunicato come fosse un qualsiasi cronista di regime, da un movimento che pure gli deve tanto essendo cresciuto, negli anni, anche grazie al clima di rivolta antisistema al quale il giornalismo di denuncia di stampo santoriano ha contribuito in maniera determinante.
Il punto è che leader capaci di comunicare senza mediazioni e senza aiutini (e senza televisioni proprie), come Renzi e Grillo, conoscono lo stato di discredito nel quale l’informazione mainstream è precipitata. Sanno che, salvo pochissime eccezioni, agli occhi dell’opinione pubblica la mistica dei giornalisti watch-dog del potere purtroppo non funziona più (il che ovviamente spalanca un grave problema di controllo democratico).
Dunque possono sfidare i conduttori sul loro terreno. Prendere gli applausi del loro pubblico. Usare la tv contro chi da anni la fa e la controlla. Andare con l’accetta dove i leader politici sono sempre andati con l’ammicco e con la trattativa preventiva, soprattutto durante le campagne elettorali.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.