Perché l’NBA è il più bel campionato del mondo

Ci sono (almeno) duemila motivi per amare l’NBA. Qui ne trovate tredici per seguirla.

Perché ricomincia stanotte, dopo 132 giorni di inutile e noiosa attesa.

Perché LeBron James potrebbe essere il più forte giocatore di basket mai visto al mondo. Ora (solo ora?) iniziano a pensarlo in tanti, sbandierandolo pure. Girano «adesso con le tette al vento / io ci giravo già vent’anni fa».

Perché la sfida era stata lanciata due estati fa: «Not one, not two, not three, not four…». Miami punta a ripetersi. E poi ancora.

Perché per farlo a South Beach è arrivato, dai Celtics, il tiro fatto arte, Ray Allen. Così dopo “lo strangolatore” a Boston ora hanno anche “il traditore”. Che stanotte, per iniziare, scende in campo proprio contro i suoi ex-compagni.

Perché a Hollywood – si parla dei Los Angeles Lakers, ovvio – hanno fatto le cose in grande. A Kobe Bryant e Pau Gasol (e Metta World Peace), si sono aggiunti “A Beautiful Mind” Nash (non John, Steve) e “Superman” Howard. Roba da sbancare i botteghini, di sicuro. Vincere, poi, potrebbe essere un’altra cosa.

Perché a Hollywood – stavolta si parla dei Clippers, meno ovvio – non sono stati troppo da meno. L’anno scorso tutti a parlare di L.A. come “Lob City” (gli assist di Chris Paul per le schiacciate di Blake Griffin). Quest’anno sono anche meglio, con il ritorno di Chauncey Billups e l’arrivo di Jamal Crawford e Grant Hill.

Perché se il derby di Los Angeles avrà parecchio fascino, quello di New York sarà “la partita” (almeno sulle due sponde del ponte del chewing gum). Brooklyn vs. New York. Jay-Z vs. Spike Lee. O Deron Williams vs. Carmelo Anthony, se preferite.

Per la prima volta di Brooklyn, appunto. Perché i Nets hanno lasciato la campagna del New Jersey e sono arrivati in città. Non in una città qualsiasi, ma a NYC. Non in un posto qualsiasi, ma nel quartiere che fu dei Dodgers. Cinquantacinque anni dopo Walter O’Malley. E questa copertina qui .

Perché “white men CAN jump”. Basta guardare ai Minnesota Timberwolves. Da quelle parti la squadra non era così “bianca” neppure quando si chiamava ancora Lakers e in centro schierava George Mikan. Ma guai a farsi ingannare: come Woody Harrelson sul playground di Venice Beach, questi possono giocarsela alla pari con tutti – e in grande stile. Non solo Ricky Rubio e Kevin Love (quando rientreranno), ma pure due russi (Kirilenko e Shved), un portoricano (Barea) e un montenegrino (Pekovic). E Chase Budinger, che sembra proprio la fotocopia del compagno di Wesley Snipes.

Per Andrea Bargnani, Danilo Gallinari e Marco Belinelli. “Italians Do It Better”, siempre!

Perché Derrick Rose, prima o poi, tornerà in campo. Chicago aspetta il suo figliol prodigo. E il primo titolo NBA dai tempi di Michael Jordan.

Perché nel roster di Oklahoma City restano i nomi di Kevin Durant e di Russell Westbrook ma i Thunder hanno cancellato quello di James Harden dalla loro facciata e spedito la sua barba a un indirizzo nuovo [cfr. punto 13]. Nella speranza che lo zingaro di turno, lette le carte, li chiami vincenti.

Perché l’ombelico del mondo – almeno NBA – può anche essere Houston. Sì, Houston, Texas. Dove va in scena la seconda puntata del reality chiamato “Jeremy Lin Show”. Dove è arrivato James Harden. Dove, nascosto ai piani alti della dirigenza, c’è un quarto italiano (Gianluca Pascucci, “Director of Player Personnel” dopo essere stato GM dell’Olimpia Milano). E dove, nascosta tra le pieghe del roster, c’è la più bella storia di questa nuova stagione che va a iniziare.

Ma voglio raccontarvela un’altra volta.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).