Il Pd in testa alle Europee

Circola un sondaggio europeo che non dà cifre bensì una graduatoria. Molto significativa. Perché colloca il Pd al secondo posto fra tutti i partiti dell’Unione, dietro solo al colosso Cdu-Csu, davanti alla Spd e in generale ampiamente primo fra i partiti progressisti. E perché vede tra la quarta e la sesta posizione un terzetto anti-sistema mica male composto da Ukip, Front National e M5S.

Vista in questo contesto, la competizione elettorale italiana assume un altro valore. Si appannano i significati nazionali. Perdono di interesse interrogativi che qui paiono scottanti (Renzi supererà il 30 per cento? Dove si fermerà la caduta di Berlusconi? Alfano farà il quorum? Grillo avanzerà rispetto al 2013?). Si capisce meglio che cosa conti ai fini della reale posta in palio il 25 maggio, cioè se ci sarà la possibilità di cambiare davvero le politiche europee, in quale direzione, e sotto quale direzione.
Se le cose andassero come si ipotizza, ruolo e responsabilità del Pd ne risulterebbero ingigantiti.
Da una parte infatti ci sarebbe il blocco tedesco, che com’è noto non offre molte differenze tra Cdu e Spd quanto a politica europea. Dall’altra parte crescerebbe un eterogeneo movimento di ripulsa, impossibilitato ad aggregarsi (Marine Le Pen dice cose terribili di Grillo, per esempio) ma non per questo meno inquietante come messaggio e per gli eversivi obiettivi che lo caratterizzano. Il Pd di Renzi si ritroverebbe obbligato a svolgere una parte da protagonista, una funzione di leadership per tutti coloro che vogliono cambiare il corso della politica e dei destini dell’Unione europea senza limitarsi a lucrare sullo sfascio.

Per paradosso, ciò che qui ci appare immaturo, incompleto e insoddisfacente – il governo Renzi – diventerebbe non dico un modello, ma di sicuro un riferimento per la sinistra europea (come già sta succedendo con Valls in Francia).
E questo può accadere esattamente per il motivo che pare disturbare gli editorialisti liberal del Corriere della Sera: la capacità di Renzi di contrastare la marea montante anti-sistema sul terreno dello strappo radicale, della discontinuità, per incanalare rabbia e diffidenza in un alveo di riforme che non sappiano di muffa mentre ancora vengono discusse.
È evidente che non può essere una battaglia ingaggiata con i toni del paludato statista. Ma a occhio e croce, piaccia o meno, il futuro dell’Europa non è nelle mani di paludati statisti.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.