C’era una volta Mookie Blaylock

Premessa necessaria: io questa sera ci sarò – fila E, posto 12 – in una delle 34 sale sparse in giro per l’Italia che proietteranno, in anteprima mondiale, Pearl Jam Twenty, l’atteso film firmato da Cameron Crowe sui vent’anni della band di Seattle. Sarà un evento globale, in data unica per gli Stati Uniti come per l’Australia, il Sudamerica o il Sud Est Asiatico, il Sudafrica o la Europa (si vedrà anche in un solo cinema di Riga per tutta la Lettonia, in un unico schermo di Lubiana per la Slovenia e in uno di Reykjavik per tutta l’Islanda). Un film, un appuntamento, per raccontare 20 anni di una band ma 20 anni anche nostri.

Che a Milano, vent’anni fa, quando dal nord ovest americano uscivano i primi suoni ribattezzati “grunge”, ci si dava appuntamento al n°8 di Via Larga, a due passi dal Duomo, una sera sola a settimana. Si entrava e si scendevano le scale, facendo finta che quel che si trovava là sotto fosse la cosa più vicina a un “basement” di Seattle (oggi a quello stesso indirizzo vi accoglie un patinato “G-Lounge”, che nel frattempo la Milano fighettina ha preso il sopravvento…).

E se l’orologio, per una sera, va indietro di 20 anni, allora ho pensato che si potessero spingere le lancette ancora un po’ più in là, qualche mese soltanto, quando i Pearl Jam non erano ancora Pearl Jam e – loro sì, per davvero – si esibirono in un caffè di Seattle, davanti a 299 persone. Era il 22 ottobre 1990, il posto si chiamava Off Ramp, loro si chiamavano Mookie Blaylock. Erano Stone Gossard e Mike McCready alle chitarre, Jeff Ament al basso, Dave Krusen alla batteria, Eddie Vedder alla voce. Ovvero, i Pearl Jam come li conosciamo oggi, a eccezione del batterista e del nome di battaglia. E che razza di nome era Mookie Blaylock, per una band?

Semplice: il nome di un giocatore di basket. Un texano, andato al college in Oklahoma e scelto dai New Jersey Nets per il suo debutto NBA. Mookie Blaylock io me lo ricordo bene – e con un discreto astio. Perché colpevole, ai miei occhi, di tarpare le ali alla carriera di uno dei miei giocatori preferiti del tempo, tale Kenny Anderson. Era la stagione 1991-92, Kenny Anderson era la matricola super attesa dei Nets, il futuro della franchigia, ma Mookie Blaylock rimaneva – complice anche coach Bill Fitch – il playmaker titolare di quella squadra, e il giocatore che relegava in panchina il mio pupillo.

[Per la cronaca: l’anno dopo Kenny Anderson venne promosso titolare – e nel 1994 partì in quintetto all’All-Star Game – mentre Mookie Blaylock venne spedito ad Atlanta dove restò 7 stagioni, prima di concludere la sua carriera NBA a Golden State].

Ora: finisce qui l’influenza di Mookie Blaylock su Eddie Vedder e soci? Niente affatto. Basta controllare il numero di maglia del ragazzo texano lungo tutta la sua carriera NBA e il titolo dell’album d’esordio dei Pearl Jam. Si scrive 10, si legge “Ten”. Non è un caso.

Lo è, invece, che con lo stesso numero di maglia, già da qualche anno, si esibisse nella NBA anche un certo Dennis Rodman. Quel Rodman che apre la sua prima biografia (Bad As I Wanna Be) con una citazione da Alive, primo singolo dei Pearl Jam (uscito il 2 agosto 1991, quello sì vent’anni fa). Is something wrong, she said / Of course, there is / You’re still alive, she said / Oh, and do I deserve to be / Is that the question / and if so… if so… Who answers? Who answers?. Nel libro, poi, il rimbalzista di Detroit e poi Chicago spiega le sue affinità elettiva con i cinque di Seattle:

…totalmente veri nel loro mestiere, come sono vero io nel mio […] Non c’è una band come i Pearl Jam e non c’è un cantante come Eddie Vedder. Nel basket non c’è nessuno come me. Potrei giocare la stessa partita ogni sera, ma sarebbe sempre una performance diversa. Te ne vai sapendo che hai visto qualcosa di nuovo. È pallacanestro, ma c’è qualcosa in più. È lo stesso con Eddie Vedder. Potrebbe cantare le stesse canzoni ogni show ma ogni volta che lo fa provi qualcosa di diverso. Potresti sentirli in concerto dieci volte e non andare mai via con le stesse sensazioni

Gli incroci tra NBA e Pearl Jam, però, non finiscono qui. Perché nel 1992 lo stesso Cameron Crowe che oggi dirige l’omaggio al ventennale, firma Singles, simpaticissima istantanea sulla vita di un gruppo di ventenni ambientata (guarda caso) a Seattle. Tra le apparizioni quelle di Vedder, Gossard e Ament (tutti membri della band Citizen Dick capitanata da Matt Dillon), ma anche quella di X Man, Xavier McDaniel, altro super rimbalzista NBA e idolo di casa, in maglia Supersonics (Steve, aspetta a venire!, l’immortale battuta con funzione anti-eiaculatoria diretta verso il protagonista, Campbell Scott).

Effetto contrario, invece, fa la musica dei Pearl Jam a Dennis Rodman, almeno se si vuole credere alle parole contenute nel suo secondo libro, Walk on the Wild Side:

Ascoltando a tutto volume i Pearl Jam riesco a fare sesso con una marcia in più […] La loro musica per me è come l’eroina per un tossico

Gli incroci tra il rimbalzista tutto tatuaggi & piercing e l’ex voce dei Mookie Blaylock continuano prima sul terreno di casa dell’uno (Rodman irrompe con frequenza sul palco durante i concerti dei Pearl Jam, caricandosi Vedder in spalla, al concerto di Augusta nel 1996 o in quello di Dallas nel 1998) poi su quello dell’altro (in gara-3 di Finale NBA 1998, tra i Bulls di Jordan & Rodman e gli Utah Jazz, la voce dei Pearl Jam intona l’inno nazionale americano prima della palla a due), a testimoniare un filo rosso tra la band di Seattle e il basket a stelle e strisce.

Con un unico neo: proprio a Seattle, dal 2008, non c’è più una squadra NBA (trasferitasi nell’Oklahoma inseguendo mercati più floridi). Peccato, certe storie non durano sempre. Certe altre, invece, dopo 20 anni devono ancora vedere i titoli di coda.

Mauro Bevacqua

Nato a Milano, nel 1973, fa il giornalista, dirige il mensile Rivista Ufficiale NBA e guarda con interesse al mondo (sportivo, americano, ma non solo).