L’Ungheria siamo noi

La storia dell’Europa di oggi è iniziata con la caduta del muro di Berlino. In realtà, quella storia è iniziata un pochino prima, in Ungheria. Anche allora c’entravano un confine, del filo spinato e dei grandi movimenti di persone: solo che allora il governo ungherese decise di aprirlo, il confine. Il taglio del filo spinato che correva tra Ungheria e Austria nel maggio 1989 fu – letteralmente – la prima breccia nella cortina di ferro. Permettendo ai cittadini dell’Europa orientale di fuggire in Europa occidentale, l’apertura del confine ungherese fece crescere molto la pressione sugli altri governi comunisti, contribuendo così alla caduta del muro di Berlino nel giro di pochi mesi.

Ventisei anni dopo, gli sguardi sono nuovamente rivolti ai confini dell’Ungheria. Ma questa volta il filo spinato viene steso lungo la frontiera, non viene tagliato. Quella dell’Ungheria post-comunista avrebbe potuto essere la storia di un grande successo: posizione centrale in Europa, solidi legami con paesi occidentali, una tradizione democratica che si era manifestata già nei primi anni della guerra fredda, un ruolo di avanguardia nell’abbattimento della cortina di ferro. E poi lo stesso Victor Orban: l’unico, tra gli attuali leader europei, che da giovane era un leader del movimento per la democrazia nel proprio paese. Il rapporto tra l’Ungheria, la democrazia e l’Europa era cominciato molto bene, poi qualcosa è andato molto storto.

«Se questi ungheresi vogliono costruire barriere per tenere fuori gli altri, usiamo quelle stesse barriere per chiuderci dentro loro». Così si è detto nelle scorse settimane, guardando alle politiche dell’Ungheria nei confronti dei richiedenti asilo in Europa. L’idea di chiudere gli ungheresi dentro i loro stessi muri è un po’ l’idea di chiudere il problema ungherese in una scatola. In effetti sarebbe comodo poterlo neutralizzare e mettere da parte: ma il problema ungherese è un problema che riguarda da vicino tutti gli europei, non si può tentare di isolarlo.

È un problema che ci riguarda prima di tutto perché chiama in causa la nostra storia. In queste settimane, molti critici delle politiche di Orban sull’immigrazione hanno sostenuto che l’Ungheria dovrebbe accogliere i rifugiati perché negli anni Cinquanta moltissimi rifugiati ungheresi furono accolti dall’Europa occidentale. Che è vero: ma mentre accoglievano gli ungheresi, i governi occidentali decidevano di non opporsi all’invio dei carri armati sovietici a Budapest: e quindi gli ungheresi sono in debito o in credito con noi? Dietro il nazionalismo di Orban ci sono decenni di rapporti complicati tra l’Ungheria, i suoi vicini e il resto d’Europa, con cui bisogna fare i conti.

La lingua ungherese è così imperscrutabile da rendere il dibattito pubblico ungherese inaccessibile a quasi tutti gli stranieri, e questo aiuta a rinchiudere il problema dell’Ungheria in una scatola. Ma rinchiudervelo farebbe il gioco degli stessi nazionalisti ungheresi, assimilando di fatto a loro tutti i loro connazionali, anche quelli che danno una mano ai profughi, e i moltissimi che non danno una mano ma che non fanno nemmeno gli sgambetti. Non è in corso uno scontro tra l’Ungheria e il resto d’Europa: è in corso uno scontro tra un governo nazionalista e illiberale (con vari simpatizzanti anche all’estero, e non solo a destra) e coloro che vi si oppongono, sia da una parte che dall’altra del confine ungherese.

Le politiche di Orban verso i rifugiati ci riguardano anche perché mettono apertamente in discussione i valori su cui ci siamo raccontati di avere costruito l’Europa: rispetto dei diritti umani, libera circolazione delle persone, volontà di non ripetere quello che è successo con la seconda guerra mondiale. Il governo Orban non deve accogliere i profughi perché in un altro tempo qualcuno accolse i profughi ungheresi: deve accoglierli perché l’Europa vuole essere un posto dove si rispettano i diritti umani, punto. La sfida ungherese non è diretta solo contro le politiche europee di immigrazione e asilo, ma chiama deliberatamente in causa l’identità stessa dell’Europa: è una cosa che ci riguarda piuttosto da vicino.

Ci sono voluti decine di chilometri di filo spinato e lo sgambetto di una reporter per farci accorgere che in Ungheria c’è qualche problema serio. Però dietro quel filo spinato ci sono cinque anni di governo Orban. Le sue politiche recenti sono la logica continuazione delle politiche illiberali e ultraconservatrici adottate in questi anni: forse il resto d’Europa se ne poteva preoccupare anche un po’ prima. Se ne sarebbero dovuti preoccupare molto di più anche i partiti europei: formalmente, Angela Merkel – la “Madre Teresa dei rifugiati” – e Victor Orban fanno entrambi parte del Partito popolare europeo, e non è una cosa molto normale.

Infine, le politiche dell’Ungheria riguardano tutti gli europei perché pongono il problema di cosa fare quando qualcuno si rifiuta di seguire i principi e le norme della comunità a cui appartiene. Come si tutela la credibilità di quelle norme, e come si fanno rientrare le loro violazioni? È un problema generale, di cui l’Ungheria rappresenta solo un test. Ed è un problema molto complicato, con soluzioni poco chiare. Procedere con pressioni o sanzioni a volte è controproducente, perché provoca una chiusura e un inasprimento ancora maggiore delle posizioni. Ma non funziona sempre nemmeno l’altra strada, quella del dialogo, degli incentivi e degli scambi reciproci. L’unica cosa sicura è che decidere di ignorare il problema non aiuta a risolverlo.

Chiudere il problema ungherese dentro una scatola o dietro a un muro non potrebbe funzionare. È un problema che ci riguarda e che chiama in causa la nostra storia, le nostre norme, i nostri valori. Riconoscerlo come problema europeo non significa però delegarne la soluzione a qualche lontana e indefinita istituzione di Bruxelles, ricorrendo al classico «l’Europa faccia qualcosa», che è sempre buono per allontanare e disperdere le responsabilità. A Bruxelles non riescono a reagire in modo incisivo alle politiche di Orban, ma non per questo bisogna rassegnarsi ad accettarle: siamo noi l’Ungheria, ma siamo noi anche l’Europa.

Lorenzo Ferrari

Lorenzo Ferrari è uno storico, di mestiere fa libri. Gli piacciono l'Europa, le mappe e le montagne; di solito vive a Trento. Su Twitter è @lorferr.