L’ologramma di Asor Rosa

Non combattiamo questa guerra. Neanche ci inoltriamo in un campo segnato dalle trincee scavate da Giuliano Ferrara in difesa di Berlusconi e battuto dai cannoni di bronzo della gerontocrazia progressista. C’è qualcosa di inquietante e cupo, nell’idea che i protagonisti dell’apocalisse finale possano essere, insieme e contro l’autocrate di Arcore, Asor Rosa e Scalfari, la Spinelli e Zagrebelski, Camilleri ed Eco. E che lo scambio possa avvenire a colpi di reciproche denunce di golpismo, sulle quali chiamare ad arbitro Giorgio Napolitano.

Forse è una dichiarazione di sconfitta, questa nostra – in fondo, anche del progetto di Partito democratico – ma dalla sconfitta non deve scaturire obbligatoriamente la cancellazione di sé, di un’autonomia di pensiero e azione, di ciò che rimane della convinzione di dover uscire dalla stagione berlusconiana guardando in avanti e non indietro, con leadership politiche e culturali nuove e non anteguerra, su un terreno di dibattito e scontro risanato e non ulteriormente avvelenato, impregnato dei pesticidi della reciproca delegittimazione.
Fra prescrizioni brevi e dipietrismi, fra un Palasharp debenedettiano e i raduni berlusconiani di Milano, si chiude lo spazio per la soluzione politica di un problema che è comune fra destra e sinistra, e consiste banalmente nel mettere fine per via democratica a un ciclo esaurito, a una stagione che sopravvive solo per la disperazione di chi ci ha prosperato (ed è incapace di immaginare un futuro diverso per sé e per la propria parte), e per la frustrazione di chi non ha saputo promuovere un’alternativa non minoritaria.
Può darsi che ciò che ci atterrisce oggi sia solo un’illusione ottica, che queste figure che ancora pretendono per sé il centro del discorso pubblico siano solo un ologramma, mentre gli italiani in carne e ossa sono ormai tutti fuori e oltre quel bucherellato campo di battaglia.

E che siano in grande maggioranza pronti e convinti a giocarsela con altre regole e altri players, né nei palasport né nei tribunali né in tv, bensì nelle cabine elettorali. Ma è in un mondo di giornali e di opinioni che lavoriamo noi, dunque dobbiamo fare i conti con l’aria che ci tira dentro.
Walter Veltroni si stupisce che possano trovare spazio gli argomenti portati da Asor Rosa sul manifesto a favore del “golpe progressista” da perpetrare per liberarsi di Berlusconi: Veltroni fa bene a dissociarsi, come altri del Pd, però sbaglia a stupirsi. Intanto perché era facile che il pacchetto di mischia berlusconiano cogliesse l’occasione offerta dal vecchio barone rosso, la amplificasse da RaiUno ai fogli del gruppo e ne facesse lo scandalo del momento. E poi perché l’avventato Asor Rosa non è vox clamantis in deserto: la soluzione spiccia del caso Berlusconi è coerente con la tesi secondo cui viviamo in un regime, con un tiranno da spodestare in ogni modo e una destra abusivamente al potere. Insomma, Asor Rosa dà voce all’universo concettuale che anima la ribellione viola e ne ispira i leader politici e giornalistici, senza che la grande stampa progressista e il grande partito riformista abbiano voluto e saputo dare battaglia per smontare questa autolesionista semplificazione.

Quando Ferrara eleva a rango di nemico principale gli Asor Rosa, gli Scalfari, le Spinelli, da un lato confessa un datato ambito intellettuale di riferimento – sostanzialmente quello dei suoi genitori – da un altro però sfrutta la triste propensione della sinistra a scagliare contro il mondo contemporaneo non solo il Pantheon degli estinti, ma anche il Pantheon dei viventi: dalla conformista presa d’atto dell’inadeguatezza dei leader attuali, dalle nostre parti si passa subito a mobilitare i vecchi combattenti, gli unici abbastanza nobili e intoccati (dalle miserie del quotidiano) da potersi ergere come muraglia etica. Delusi dal nuovismo, ci rifugiamo nell’improbabile Arcadia dei partiti di massa dell’arco costituzionale di una volta.

Il direttore del Foglio si appella contro il golpe delle élite. È un gesto conformista anch’esso, ormai luogo comune. Si vede che non ha letto il recente bel libro di un suo amico (Un grande paese, Luca Sofri: ci torneremo), nel quale si tenta di rivalutare – contro ogni corrente – l’importanza di leadership selezionate ed elette in quanto migliori, cioè capaci di offrire orientamento, esempio e guida a concittadini che sono in tutto eguali fra loro nei diritti e nei doveri, ma non necessariamente eguali per capacità, competenza, probità.
Ecco, fra il trito e insincero antielitismo di Ferrara e l’eversivo e improvvisato giacobinismo di Asor Rosa, Sofri vede una possibile via d’uscita, in avanti e non indietro, per l’Italia. Tornare a discriminare fra bene e male, giusto e sbagliato, vero e falso, assumendosi la responsabilità di scegliere e di comportarsi di conseguenza: ma non con l’obiettivo di distinguersi da una massa di canaglie ignoranti, stupide o corrotte, bensì con l’ambizione di migliorare se stessi e gli altri; non per far emergere una minoranza eticamente superiore, bensì per conquistare una maggioranza mediamente ben informata e in grado di promuovere dei gruppi dirigenti.
Pare programma ovvio, buonsenso né di destra né di sinistra. In giorni dominati da ologrammi ingrigiti e rumorosi, somiglia di più a un’utopia.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.