Lo faccio per me

Questa pubblicità oggi sul Corriere della Sera è molto affine con quello che avevo scritto in Un grande paese, nel capitolo intitolato “Lo faccio per me”, incollato sotto.

La costruzione di un Noi non è quindi di per sé perdente: però può darsi sia inattuale. Può darsi che dell’individualismo di questi decenni – buono o cattivo che sia – si debba farsi una ragione trovando dei modi per convertirlo a buone cause, ovvero cause che siano soddisfacenti per tutti gli altri Io in circolazione.

Torniamo alla solidarietà, o amore per il prossimo, o vicinanza agli oppressi, o come la vogliamo chiamare a seconda da dove arriviamo. Che essa sia raramente totale, innata e prevalente su ogni nostro egoismo l’abbiamo già detto, citando la solita biblica eccezione a noi più familiare. Ma è stata ed è tuttora la ragione di impegni e risultati di grande generosità e supplenti di gravi mancanze istituzionali.

Però è vero che la nostra istintiva simpatia per gli altri e per le loro sorti, se non è diminuita, ha molto ridotto la sua incidenza nella costruzione di progetti e iniziative di ampio respiro. Come ho detto, Fofi prova ad aggiornare la categoria degli oppressi, che nel nostro mondo ricco e soddisfatto prendono la forma degli oppressi da modelli e informazioni vacui, immorali e degradanti. Ma stiamo confrontando coloro a cui le nostre società negano la capacità di scelta e coloro il cui stato di sofferenza è più immediatamente percepibile e la richiesta di aiuto più ineludibile: non è la stessa cosa, non sono gli stessi oppressi. Un conto è essere mossi a generosa battaglia in favore di emarginati ridotti in sofferenza fisica e umiliazione psicologica, più difficile è provare empatia per classi sociali ridotte in schiavitù dalle mutande di Dolce e Gabbana, da Amici di Maria De Filippi o dalle tariffe promozionali degli sms, ma per niente intenzionate a essere salvate e aiutate. La demagogia ha una diabolica potenza, non solo retorica: se tutto ci dice che il derby è l’evento più importante della nostra vita, sarà impossibile per chiunque aiutarci a fare una scelta consapevole tra un anno di trasferte e una laurea in ingegneria. E a quel chiunque passerà anche la voglia. Insomma, un po’ per mutazione degli oppressi e un po’ per mutazione dei solidali, è probabilmente vero che l’altruismo non è più in grado di essere il travolgente motore di nuovi progetti di impegno sociale e politico e di riscatto culturale.

In un libro del 2010, Jacques Attali suggeriva d’uscita alla crisi economica declinate sui comportamenti individuali:

Costui saprà che la sopravvivenza non implica per forza la necessità di aspettare questa o quella riforma generale, quella grazia o quel salvatore; che non esige la distruzione degli altri, ma soprattutto la costruzione di sé e l’attenta ricerca di alleati; che non risiede in un ottimismo illimitato, ma in un’estrema chiarezza in relazione a se stessi, in un desiderio selvaggio di trovare la propria ragion d’essere; la quale non è da costruire soltanto nel singolo momento, ma anche sul lungo periodo; la quale non è finalizzata alla conservazione di ciò che si è acquisito, ma può riguardare il superamento dell’ordine attuale; la quale non si limita soltanto a mantenere l’unità del proprio io, ma esige di prevedere tutte le possibili diversità. Per arrivare a questo punto, costoro dovranno cominciare un lungo apprendistato relativo al controllo del sé, a cui nulla, per il momento, li prepara.

Proseguendo, Attali esponeva una serie di atteggiamenti da prendere in considerazione a questo scopo, alcuni dei quali condivisibili fino a essere generici e banali. Ma a un certo punto parlava anche di «praticare un altruismo interessato». Che è un concetto molto affascinante e proficuo, una prospettiva di compromesso tra le insuperabili necessità di affermazione e soddisfazione di sé proprie di questi tempi e l’investimento di sé nel miglioramento del mondo. Attali parla anche di «attenta ricerca di alleati»: e non sono sicuro sia quello che intende lui, ma anche questo è uno spunto da riprendere, quello della costruzione di un ambito di riferimento da sentire «il proprio prossimo» e con cui condividere progetti e ambizioni e farli crescere, facendo crescere anche quello stesso ambito. Ricapitolo:

  1. Un altruismo generoso, complice e promettente con «il mio prossimo» che riconosco come tale, che mi somiglia, che mi è alleato e socio. Le persone con cui condivido affetti, comprensioni, letture del mondo e con cui è possibile costruire qualcosa, a cominciare da un allargamento progressivo di questa forza.
  2. Un altruismo interessato nei confronti di tutti gli altri, dettato dalle necessità della convivenza e dall’umano bisogno di dare un senso e una soddisfazione alla propria esistenza.

La democrazia di una società complessa si articola nella concorrenza di diverse proposte egemoniche. Sono le élite ad avere la capacità, e il dovere, di esercitare consapevolmente le virtù sociali e politiche, di esserne l’esempio concreto, Infatti, i loro membri sono sì orientati al successo, ma anche alla lungimiranza, alla disciplina, al differimento dell’utile, al merito, al decoro, all’efficienza: non per amore della virtù, ma per legittimare le proprie pretese. La loro deontologia – l’insieme dei doveri di ciascuno verso la professione, verso se stesso e verso i pari – è la loro morale civile: è l’assunzione di responsabilità, fondata sul rigore e sul merito, verso la società intera.

In questo bell’articolo su «Repubblica» Carlo Galli parlava del «cinismo delle élite», che in Italia «sembrano non volersi più sobbarcare il peso del rigore disciplinato che è necessario per articolare in chiave universale i propri interessi particolari, per coniugare al futuro, e non nella miopia dell’eterno presente, i verbi dell’agire sociale; per essere esempio civile».

Torniamo alla confusione sugli elitismi in cui avevo cercato di mettere ordine qualche capitolo fa. Ci sono élite italiane storicamente definite e costruite che sono fuggite dai loro ruoli, se ne sono lavate le mani per ragioni che vanno dal pavido all’avido, si sia trattato di egoismi o disincanti. L’Italia non trova più modelli istruttivi e di qualità laddove normalmente li si cerca: nelle classi dirigenti, in politica, economia e nei media, complice anche il mancato ricambio generazionale. Questi modelli devono essere prodotti altrove, da nuove forze e nuove individualità che si muovano in campi nuovi e riorganizzino quelli antichi: nelle nuove professioni innovative, in rete, nella ricerca, nella scienza, in ogni ambito in cui siano meno fossilizzati i meccanismi di conservazione e deresponsabilizzazione che oggi guidano l’Italia. Per stimolarli e indirizzarli proficuamente verso una specie di ricostruzione del nostro paese bisogna investire sulle ambizioni dei singoli e sulle solidarietà «di classe» e di gruppo. Non miglioreremo l’Italia per gli altri, per quelli che non conosciamo, per gli oppressi vecchi e nuovi: la miglioreremo per noi e i nostri simili – oppressi a nostra volta dalla perdita di una paglia –, per quelli con cui sentiamo di condividere qualcosa e che vorremo siano sempre più numerosi: se non lo diventeranno, vorrà dire che non avevamo capito niente e non eravamo solo minoranza, eravamo pure fessi, altro che élite. Ancora Carlo Galli:

Si tratta di ricominciare dai pochi (che saranno certo tacciati di moralismo, azionismo, giacobinismo), cioè da élite nuove o rinnovate, la cui rigorosa esemplarità sappia riportare la decenza e la vergogna fra le virtù civili della nostra democrazia.

Élite si diventa, con la speranza di trovarci già qualcuno, quando arriviamo lì, e che tutti gli altri arrivino presto. Siamo noi la California.

 


Vedi anche:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).