Il nuovo libro di Veltroni, aspettando il congresso del PD

Sfidando per ora soltanto la crisi dell’editoria libraria, almeno un campo del congresso del Pd comincia a delinearsi. Aiutato appunto da due libri che escono in questi giorni: uno di Walter Veltroni e l’altro di Matteo Renzi. Con un certo valore simbolico, presto saranno presentati separatamente ma in contemporanea proprio al Lingotto di Torino.
Il fatto curioso è che i due autori hanno in comune molto sul piano della visione politica; non si sono mai trovati insieme nella battaglia dentro al Pd, per motivi che vedremo; ma potrebbero condividere da qui a ottobre un ruolo inedito, diventando i king maker del prossimo segretario democratico, nel caso prendesse corpo la candidatura di Sergio Chiamparino di cui si parla in queste ore.

L’ex sindaco di Torino, riformista tostissimo e di grande modernità di pensiero, potrebbe essere l’uomo che salda l’avventura di Renzi al ceppo originario e fondativo del Pd, come fin qui non è stato per il combinarsi negativo di due fattori: l’allergia del sindaco di Firenze verso una tradizionale “politica di alleanze” nel Pd, e l’insofferenza veltroniana nei confronti di chi non ha mai voluto riconoscere discendenze politiche né debiti politico-culturali.

Nella stagione della rottamazione Renzi s’è giovato di questa esibita estraneità, mentre Veltroni finiva vittima indiretta dell’abile e un filo cinica rivendicazione di originalità del rottamatore.
Ora i tempi sono cambiati. Se Renzi ha pensato di potersi riappacificare addirittura con D’Alema, anche le tante e ben più forti analogie politiche con Veltroni potranno essere riconosciute. Indietro però non si torna e la natura dei leader non si cambia: quando Renzi rimetterà in moto il camper, nel suo nuovo viaggio verso palazzo Chigi continuerà a farsi compagnia da solo e con la generazione di dirigenti che sta crescendo intorno a lui.
Visto però che c’è di mezzo un congresso, un partito più da rifondare che da guidare, e che Renzi questo mestiere non vuole proprio farlo, Chiamparino si offre come l’uomo giusto per un lavoro che qualcuno dovrà fare.

Se sarà, sarà un’operazione di rottura di continuità. La cui durezza e necessità tracima da ogni pagina di E se noi domani, il pamphlet stavolta non buonista ma molto polemico scagliato da Veltroni contro Bersani.
Stavolta perfino per uno come Veltroni la pars destruens è stata inevitabile, e dev’essere venuta facilmente. Troppo clamorose le dimensioni della sconfitta del centrosinistra nello scorso febbraio, e troppo evidenti dal suo punto di vista le ragioni.

Ha perso una sinistra conservatrice, rinserrata nelle proprie certezze non più dimostrabili, disinteressata a quanto avveniva fuori dal proprio recinto, volontariamente esposta al ricatto estremista. Prima incapace di intercettare la valanga di consenso che fuoriusciva dal centrodestra, poi fatalmente incapace anche di trattenere il proprio, attirato da proposte elettorali molto più agili nel loro deliberato e disinvolto post-ideologismo.
Hanno perduto coloro che volevano «dare un senso a questa storia» (identificando però la vita giovane del Pd con la storia antica e superata del socialismo), le hanno prese dal giaguaro che volevano smacchiare e hanno finito per gestire in modo assurdo tutta la fase dopo le elezioni.

Con vezzo tipicamente veltroniano (che gli sarà rimproverato), in 140 pagine i nomi di Bersani e Renzi non compaiono mai (quello di D’Alema sì, quello di Berlusconi spesso). Ma l’ex segretario è ovviamente il primo destinatario della critica a un partito che si chiude e riesce a trasformare perfino le primarie sui parlamentari in un festival delle correnti; e la figura del sindaco di Firenze (al quale non si rivolgono riconoscimenti espliciti) si avverte dietro molte frasi sulla necessità di un Pd aperto all’esterno, capace di dialogare con gli italiani di ogni convinzione politica.

La pars construens è ampia, articolata intorno ai concetti-chiave di responsabilità, comunità e opportunità. Chi si entusiasmò per la piattaforma politico-ideale del Lingotto la ritroverà tutta (del resto non essendo da allora cambiata la sinistra, anche i limiti da superare continuano a essere gli stessi), con la novità importante della piena apertura al semi-presidenzialismo alla francese.
Sapendo che tanti obietteranno, Veltroni anticipa la critica: sì, queste cose potevo dirle prima, non mi fossi fatto fermare «dal pavloviano spirito di unità». Che poi è il punto sul quale si incagliano sia la puntigliosa e reiterata rivendicazione di averci visto giusto su molte cose fin dal 2007 e da molto prima, che l’amara annotazione di essere stato tagliato fuori da ogni sede di direzione. Ma per fortuna intanto c’è stato Renzi, che molte di quelle stesse critiche le ha mosse prima della catastrofe e la battaglia l’ha mossa quando ancora si sarebbe potuto rimediare.

Questa è anche la fortuna di Veltroni: la «sinistra che vorrei» (sottotitolo del libro) può ancora farcela. Con le sue idee affidate all’impatto di Renzi. E magari chissà alla caparbietà di Sergio Chiamparino.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.