La storia del castello di Oria

In Italia ci sono luoghi simili a provette in cui precipita la vicenda millenaria del Paese, e che dunque ne incarnano la ricchezza non solo sul piano artistico, ma anzitutto a livello di identità storica. Il castello di Oria, sulla via Appia a metà strada tra Brindisi e Taranto, è uno di questi miracoli: con un profilo austero e turrito in grado di colpire Le Corbusier che lo disegnò dal treno, esso corona il colle dove si ergeva l’antichissima acropoli dei Messapi, e dove sorsero nei secoli prima un tempio di Saturno e poi la prima chiesa cristiana della zona.

Per quanto oggi appartata rispetto alle più note località del ruggente Salento, in età romana e medievale Oria fu un centro importante, prima in quanto tappa della Regina Viarum, l’Appia antica che partiva a Roma e terminava tra le colonne del porto di Brindisi (ora oggetto di uno splendido progetto di recupero ispirato da Paolo Rumiz e propiziato dal ministro Franceschini), poi dal VII al X secolo in quanto sede di una delle comunità ebraiche più fiorenti d’Europa, ricca di filosofi, medici e poeti, decimata dagli assedi arabi del 925 e del 977.

Il castello che vediamo oggi, architettonicamente simile ai castelli crociati di Siria e di Giordania (com’è noto, proprio a Brindisi avveniva l’imbarco per l’Oriente), è di qualche tempo dopo: tra le sue potenti torri, una forse edificata dai Normanni e le altre probabilmente dagli Svevi e dagli Angioini (l’intervento diretto di Federico II, spesso vantato dagli storici locali, è incerto anche se plausibile), nel 1480 Alfonso II d’Aragona raccolse l’esercito che partì alla riconquista di Otranto caduta in mano turca. Si può dire che tra le strade e la rocca di Oria si siano susseguite – spesso in modo traumatico, e lasciando ampie tracce – tutte le componenti principali che hanno dato vita all’incredibile poliedricità culturale del nostro Paese.

Ora, da quasi quindici anni un monumento così importante come il Castello è di fatto invisibile: caduto in mano privata con una sciagurata permuta già nel 1933, esso fu a lungo abitato e gestito dalla famiglia Martini Carissimo, che lo restaurò, lo impreziosì di una favolosa collezione di reperti archeologici della zona e ne garantì per decenni (come da clausola contrattuale) la parziale visitabilità. Nel 2007, però, gli eredi per 7 milioni di euro hanno venduto il castello alla Borgo Ducale srl, una ditta che si occupa di organizzare eventi e banchetti nuziali; e qui sono iniziate le stranezze.

Anzitutto è solo con grande ritardo che la Soprintendenza notifica la vendita agli enti locali, i quali nonostante un’affannosa corsa in pieno agosto non riescono a esercitare il diritto di prelazione (il Ministero mostra un tiepido interesse, la Regione brilla per la sua assenza). Poco tempo dopo, nonostante l’atto di compravendita e la licenza per le necessarie ristrutturazioni parlino di “destinazione turistico-culturale”, dunque presumibilmente mostre e convegni (ma è magicamente scomparsa la clausola del ’33 circa l’obbligo di apertura “a quei cittadini e forestieri che vi si recheranno a scopo culturale e storico”), la nuova proprietà interviene a spostare antiche colonne, aprire finestre e abbattere muri, chiedendo un cambio di destinazione d’uso a scopo ricettivo e di ristorazione (insomma: trasformare il Castello in una location per banchetti matrimoniali e ricevimenti privati d’alto profilo).

La soprintendenza (si scoprirà, tramite funzionari collusi: ma su questo reato, pure accertato, è calata ormai la prescrizione) dà parere positivo, ma non così l’ufficio tecnico del Comune di Oria che, sgomento dinanzi alla violenza dei lavori interni, sollecita l’intervento della magistratura: il castello è sequestrato nel 2011, dissequestrato quattro anni dopo in seguito al patteggiamento, ma la proprietà – nonostante la condanna a un anno di reclusione, e nonostante la pronuncia del TAR contro ogni “speculazione offensiva del paesaggio storico” – insiste a chiedere più o meno apertamente il cambio di destinazione d’uso, e a negare l’accesso. Cancelli chiusi, e invisibili anche le sostruzioni messapiche, la chiesa ipogea del IX secolo con i suoi affreschi bizantineggianti, pezzi di storia d’Italia che da anni scolaresche e turisti chiedono invano di poter contemplare.

Con una coraggiosa petizione che ha già superato le mille firme, l’associazione Mente Civica Oria (e in particolare Glauco Caniglia, che ha ripercorso la tormentata vicenda giudiziaria nel libro Il Castello di Oria, Esperidi 2018) si è rivolta al ministro Franceschini per chiedere che il Castello venga riconosciuto come “bene di interesse eccezionale” e, ai sensi dell’art. 104 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, ne venga promulgato l’obbligo di assoggettamento a visita pubblica. La prima reazione della Soprintendenza è stata, sorprendentemente, negativa (“non ne ricorrono i presupposti”).

La proprietà prima del lockdown si era mostrata disponibile a un’apertura condizionata al cambio di destinazione d’uso a fini commerciali (ovvero: lo apriamo alle visite guidate – per i privati e per le scuole – per 10 anni se ci date un’autorizzazione sine die a utilizzarlo per i matrimoni e il turismo di lusso), su cui l’amministrazione comunale, che auspica invece una garanzia priva di scadenza, ha comprensibilmente nicchiato. Sembra ora che si stia addivenendo a una garanzia di apertura al pubblico per trent’anni (sempre a fronte del cambio perpetuo di destinazione d’uso), che potrebbe pure rappresentare un compromesso nella misura in cui nella convenzione venisse garantita la piena e costante visitabilità del Castello (dunque non solo le torri, ma tutto il complesso, e non solo per un paio di giorni a settimana), e nella misura in cui le attività commerciali ricettive e ristorative rimanessero secondarie rispetto a una “valorizzazione” virtuosa del bene volta a “preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura” (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, art. 1 comma 2). Una valorizzazione che potrebbe peraltro dare l’abbrivo a un rilancio anche turistico di una cittadina altrimenti destinata a un probabile declino, pur in un territorio ad elevato potenziale.

Come non pensare poi che, nella prospettiva di un vero recupero alla collettività e alla coscienza pubblica, il Castello rappresenterebbe il luogo ideale di un Museo della Messapia che riprenda e integri – magari proprio con i 793 reperti della collezione Martini Carissimo, la cui sorte è ad oggi poco chiara – quanto attualmente esposto in un nobile ma angusto palazzo del centro di Oria?

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.