Io rimanderei (risposta a Giuliano Ferrara sulla fine del berlusconismo)

Caro Giuliano, ho una prima perplessità di metodo sul tuo invito a una riflessione seria ed equilibrata sul berlusconismo che tu stesso implichi moribondo. Come puoi capire anche tu, un invito a discutere comportandosi bene che venga da una parte in causa, e da quella che fino a oggi non si è di certo comportata bene nel descrivere l’Italia di questi anni (indicata per metà come composta da comunisti o fighetti o manettari) suona un po’ provocatorio: è l’arbitro a chiedere correttezza, e tu arbitro non sei, e il tuo invito suona ancora come un tentativo di rinfacciare passati piuttosto che di costruire futuri.
Ma comunque suoni, voglio dirti cosa penso di una proposta che giudico sensata, e voglio dirtelo negli stessi termini in cui l’hai formulata tu: ovvero descrivendo da cosa dovremmo stare alla larga e cosa mi rende diffidente sulla sua affidabilità.

Ti chiedo scusa se ti associo a persone diverse da te, e spesso molto diverse da te, in un discorso più generale: ma è una pratica – quella di includere per esempio tutta la sinistra in una sua macchietta – su cui al Foglio siete sempre indulgenti, e quindi perdonerai se io la seguo in buonissima fede. E pongo quindi il tema della credibilità di molti intellettuali – come te – che in questi anni sono stati “indulgenti” col suddetto berlusconismo. Uso il termine “indulgenti” così abbiamo un minimo comune denominatore che si adatta a molte persone diverse che in questi anni hanno guardato con attenzione, consenso, credito, fiducia o appoggio a quello che Silvio Berlusconi faceva con l’Italia e per l’Italia. E le distinguo da quelle che invece a Berlusconi non hanno mai creduto, non hanno mai creduto alla possibilità che il suo “progetto” potesse portare del bene all’Italia, si sono sempre sentite da un’altra parte, a ragion veduta, anche quando quella parte non aveva un leader da seguire. Ce ne sarà una, di persona così, a cui attribuisci criterio e buona fede, o credi appartengano tutte al pregiudizio che attacchi ogni giorno? Se ne esiste uno – non voglio farmene esempio io, trovane di più credibili – vuol dire che si poteva. Tu dici che è apprezzabile che Piccolo alluda alla possibilità che la destra vinca, legittimamente: ecco, allo stesso modo, metti in conto che si possa essere antiberlusconiani con buone ragioni, e che oggi quelle buone ragioni si dimostrino vincenti, se siamo di fronte a una “delusione” come tu hai chiamato il corso delle cose berlusconiane.

Ecco che quindi la chiarezza di ricostruzione delle cose che chiedi ha bisogno innanzitutto di una cosa: che voi, persone che sono intelligenti e conoscono l’Italia, persone che furono di sinistra o comunque non di destra, persone che spesso sono come te mie amiche, spieghino per prime le ragioni di quella “indulgenza” e ne ammettano l’errore. Non per nessun autodafé – e ci mancherebbe – ma perché se si capiscono i meccanismi e si condividono le letture si arriva al risultato che chiedi, altrimenti no. E la mia lettura è quella che segue.

Io credo che molti di voi – persone garantiste e democratiche – siano rimasti molto scottati dagli eccessi di una parte della sinistra che eravate abituati a frequentare, che trasformò le simpatie per i comunismi in simpatie per i giustizialismi, e nascose le contraddizioni e il fallimento di tutto questo sotto una coltre di ipocrisie e presunzioni. Credo che in quella parte di sinistra stessero uomini allora potenti e anche uomini che vi erano vicini, familiari, a volte amici, e questi due elementi – alla pari – vi abbiano reso inevitabile un desiderio di sconfiggerli. Perché pensavate avessero torto e perché davate loro credito e statura intellettuale. Ancora oggi tu nomini le stesse persone, persone anziane inevitabilmente estranee al tempo presente e al futuro, alla comprensione del mondo, aiutate invece nella loro comprensione dell’Italia dal fatto che l’Italia è invecchiata con loro, immobile. Per fermare l’egemonia di quel pensiero (o di quei pensieri, che voi avete deciso di definire “la sinistra”), io credo, avreste potuto tentare di combatterlo da dove vi trovavate, provando a evitare che la sinistra ne divenisse ostaggio. Invece avete deciso di darla per perduta, di non farvi voi stessi portavoce delle vostre idee e di trovare un’altra squadra con cui giocare una partita nuova, e quella squadra lì la costruì Berlusconi.
Anche dando qualche credito iniziale all’ipotesi della “rivoluzione liberale” – a cui però ti ricordo che molti liberali hanno ritenuto di non credere – fu chiaro subito che quella squadra poteva offrire in realtà solamente forza e perseveranza verso un obiettivo che era sì il vostro, ma per ragioni più recenti, concrete e di minor spessore. E con un armamentario collaterale di mediocrità, inadeguatezze, mancanza di responsabilità e senso del ruolo.

Il risultato fu di creare una guerra che poteva essere scongiurata: tu pensi che quella guerra avrebbe potuto essere vinta (e magari pensi addirittura di averla vinta), ma non è così che si governa un paese. I risultati si vedono. L’Italia è in rovina: è una rovina culturale e sociale che non si può rassicurare raccontando che non abbiamo fatto la fine della Grecia. L’Economist sarà anche approssimativo e superficiale nelle sue indagini, ma non fa speciali sulla rovina della Francia, e nemmeno del Belgio, che pure ha i suoi guai. Un paese non sta insieme con i conti di Tremonti, buoni o cattivi che siano. Sta insieme sentendosi paese, credendo in alcune cose condivise, riconoscendo modelli e responsabilità. Costruendo leader e modelli credibili, e voi ne avete sostenuti di incredibili. Il nostro paese è andato a remengo. E non lo ha fottuto un uomo solo, ma quell’uomo con l’aiuto complice di molti altri, in buona fede o no. Io non ho dubbi che molti di voi lo fossero – vi conosco – ma penso che ci abbiate lastricato l’inferno (ti rallegrerà, sei un sostenitore del luogo), convinti di sconfiggere Asor Rosa, o Barbara Spinelli. Wow. Se oggi il giustizialismo e l’ipocrisia albergano solidamente in una parte della sinistra, e non meno (anzi di più) di quanto ci stessero vent’anni fa, è grazie al vostro sottrarvi a combatterli con la credibilità di chi non stesse con i banditi e con l’aiuto dei banditi stessi. Indifferenti alla crescita di una classe dirigente cialtrona e inetta (che ve ne importava, mica erano di sinistra) al vostro fianco, per diciassette anni avete lavorato con successo alla sopravvivenza del peggio che c’era a sinistra e anzi alla sua crescita, diventandone complici, e intanto sostenendo – anzi, essendo “indulgenti” – la costruzione del peggio a destra. Se alcuni di voi lo hanno fatto per salvare la memoria di vecchi amici socialisti, non gli avete reso un bel servizio.

Oggi leggo che molti di voi si dicono “delusi”, o che scrivono severe critiche degli insuccessi di una maggioranza che hanno spesso difeso dagli attacchi da sinistra. Di Berlusconi potete dir male solo voi. È l’unico motore che vi ha spinto allora e che vi spinge ancora: il fastidio/disprezzo/paura per quelli a cui avete cambiato la definizione da “comunisti” a “radical chic” a “partito di Repubblica” o altri nomignoli ancora. Cambiava il mondo, intorno, e voi avreste potuto partecipare al cambiamento e dare una mano a fare entrare questo paese in un altro millennio. Invece ancora oggi nel tuo editoriale avverti del pericolo che si ripeta la fine del fascismo, e citi Togliatti, santi numi.

Questo penso io, con presunzione, lo so: non bisognerebbe mai pretendere di sapere cosa sta nella testa degli altri meglio degli altri, meno che mai di spiegarlo. E so che non ti piacerà, ma la mia risposta alla tua proposta di definizione storica del berlusconismo è questa: dimentichiamocelo, insieme all’antiberlusconismo. Costruiamo altro, liberiamocene occupandoci di prospettive migliori e indispensabili, e poi potremo parlarne serenamente, un giorno (quello fu lo sbaglio col fascismo, se lo vuoi sapere: voler fare i conti subito). Per questo do a te e agli altri amici miei “indulgenti” il tempo che volete per trovare una risposta alla mia ricostruzione. “Portarsi avanti”, come proponi tu, impone che invece ci facciamo delle domande subito, e ho l’impressione che siamo tutti piuttosto stanchi.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).