Il sottosegretario Mantovano

Ero indeciso se trattare questa storia nella rubrica “Notizie che non lo erano”: il sottosegretario Mantovano che dopo essersi dimesso da sottosegretario perché in disaccordo con l’atteggiamento del governo sull’immigrazione e in particolare con le scelte nei confronti del campo di Manduria, ed essere stato intervistato per giorni a destra e a manca ribadendo con grande severità e dignità il suo dissenso, insistendo che non sarebbe “tornato indietro”, ieri ha ritirato le sue dimissioni (ma fino a quando si possono “ritirare” le dimissioni? abbiamo inaugurato la stagione delle dimissioni a tempo?) spiegando che il permesso temporaneo approvato ora dal governo risponde alle sue richieste.

La notizia che non lo era si inserisce in effetti in un solco degno ormai di una saggistica sua: le dimissioni minacciate di Giovanardi, le dimissioni promesse di Carfagna, le dimissioni annunciate di Prestigiacomo, e ora le dimissioni ritirate di Mantovano. Tutte date per certe dai giornali, e poi sparite senza lasciare tracce, né riflessioni successive.
In questo caso però non si può darne colpa ai giornali, che altre volte dovrebbero usare maggiore scetticismo nei confronti di tanti annunci: queste dimissioni sembravano convincere della loro concretezza anche i più sgamati e corretti cronisti. Mantovano si era dimesso, agli occhi di tutti.

Invece no: non si era dimesso, e oggi tutto torna al suo posto. Mantovano si rivela avere usato il suo gesto come strumento di pressione – forse – ma senza essere disposto a pagare nessun prezzo per quello che ha ottenuto. Dignità avrebbe suggerito che si limitasse a dire “apprezzo la scelta del Governo e spero di avervi contribuito, ma non torno indietro su una scelta fatta e annunciata al paese, suonerebbe ridicolo”. Che mantenesse il suo disappunto per quello che è stato fatto a Manduria, esposto come un tradimento nei confronti dei suoi elettori, anche passato qualche giorno: altrimenti è come dimettersi prima di un’esecuzione capitale perché la si ritiene ingiusta, e ritirare le dimissioni a esecuzione avvenuta perché ti promettono che ora non ne faranno più.

Ma soprattutto, ripeto: è una questione di dignità. Di dare un esempio – una volta, almeno – di capacità di non mettere sempre se stessi e la propria sistemazione davanti a qualunque cosa. Di saper immaginare che il sottosegretario lo possono fare molti altri al posto tuo senza grave nocumento per il paese. Di essere capaci di accettare le conseguenze delle proprie scelte, e di essere coerenti con le proprie parole: solo gli sciocchi non cambiano mai idea, già, ma i non sciocchi aspettano almeno un paio di settimane.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).