Far sentire la propria voce

Nell’intenso dibattito sulle contestazioni delle settimane scorse che hanno impedito a persone diverse di tenere dibattiti pubblici – a cui rimando per i suoi argomenti principali – è molto frequente l’argomento del “fare sentire le proprie ragioni”. Quale modo, si dice, hanno i cittadini di far conoscere il loro dissenso, di dire la loro, di far sentire come la pensano e le proprie ragioni?

Ripeto, superiamo qui tutta la discussione di come questo non abbia niente a che fare con lo “zittire” dipietresco, con i fumogeni, con il togliere al prossimo – chiunque sia – la libertà e il diritto di esprimere la propria opinione rispettosamente, libertà e diritto sanciti dalla Costituzione. Ammettiamo che niente sia successo, o fingiamo che siamo tutti d’accordo sul fatto che quelli sono stati eccessi inammissibili. Resta la domanda “come fare a far sentire la propria voce, il proprio dissenso?”.

Ecco, non fraintendetemi, ma io non sono sicuro che si debbano pretendere spazi e occasioni continui e 24 ore su 24 per far sentire la propria voce. Non so se sia stata internet o la società dei due minuti di celebrità per tutti a viziarci in questo senso, ma è assolutamente normale che non abbiamo tutti accesso alle medesime occasioni di esprimerci nelle medesime forme. Altrimenti dovremmo pretendere di scrivere tutti sulle prime pagine dei quotidiani e di essere intervistati dal tg sulle nostre opinioni (e avviene molto più spesso che un tempo). Invece ci sono gerarchie di accesso alla comunicazione dei propri pensieri, dettate da criteri a volte buoni e a volti no, ma la cui esistenza è del tutto plausibile.

E gli spazi per esprimere le nostre opinioni, per far sentire il nostro dissenso (ma di esprimere consenso non gliene frega niente a nessuno?) ci sono, e sono molte più che una volta. Possiamo comprare o no i libri di Dell’Utri, possiamo votarlo o no, possiamo votare o no i suoi oppositori, possiamo scrivere quello che ne pensiamo su un blog, su facebook, nei commenti dei siti grandi e piccoli, nelle lettere ai giornali, possiamo condurre vite diverse da quelle di Dell’Utri e insegnarle ai nostri prossimi. Possiamo impegnarci in politica, andare alle riunioni e discutere e intervenire: possiamo aspettare la fine dei dibattiti, ascoltarne il contenuto e quando chiedono “domande?” alzare la mano. Possiamo lavorare per costruire altro da quello che critichiamo, piuttosto che concentrarci solo sul demolirlo (si demolisce da sé, in presenza di alternative migliori).

Chiunque di noi ha accesso a molti modi di esprimere le proprie idee e ottenere ascolto, modi diretti e indiretti. Certo, lo so anch’io, che non sarà mai un ascolto vasto quanto quello di milioni di telespettatori che ci vedono urlare per strada fino a impedire un dibattito: ma è un ascolto, quello? E soprattutto, chi ci dà il diritto di ottenerlo, se non la forza, che non è mai un buon criterio? Io so benissimo che difficilmente Silvio Berlusconi leggerà le mie perplessità sul suo governo su questo blog e so benissimo che le leggerà al massimo qualche migliaio di persone: ma questo dovrebbe farmi cercare forme più violente e esasperate di cercare attenzione e di fare notizia? Dovrebbe farmi pretendere spazi più ampi di espressione? Come faccio a far sentire davvero la mia voce? Non è quello che poi andiamo criticando ogni giorno, il sistema di chi urla più forte? E se gli urlatori da talkshow ci rispondessero che è l’unico modo di far sentire le loro ragioni?

Concludendo, la mia impressione è che il diritto a far sentire la propria voce sia un falso argomento. La Costituzione tutela il diritto a esprimere il proprio pensiero ma non si spinge a garantire che quel pensiero debba essere ascoltato (e quanto) e a cercare modi di per ottenere che lo sia. E scommetto che se questo paese funzionasse meglio il diritto a far sentire la propria voce non sarebbe evocato e parleremmo serenamente di quel che accade nelle occasioni che la vita ci riserva e che la società ci offre. Il che ci riporta al fatto che il paese funziona male: lo migliorerà chi riuscirà a farsi ascoltare con delle buone idee, non con la pretesa di farsi ascoltare. E ve lo dice uno che ci lavora da un pezzo, e non è facile per niente.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).