Cosa scrisse Gabriele Cagliari

Stamattina, di fronte agli isterici e deliranti attacchi di Berlusconi nei confronti della magistratura, Repubblica pubblica un ampio ritratto agiografico del pm Fabio De Pasquale, definito da Berlusconi “famigerato” per via della storia più terribile della sua carriera di pubblico ministero, ovvero il suicidio in carcere del presidente dell’ENI Gabriele Cagliari, nel 1993. Berlusconi l’ha riassunta così, come fu raccontata dai giornali allora.

«Disse a Gabriele Cagliari che lo avrebbe liberato il giorno dopo e poi è andato in vacanza, mentre Cagliari si è suicidato»

L’articolo di Repubblica tra le altre cose cerca di contraddire questa versione e liberare De Pasquale da ogni ombra su quella vicenda.

Cagliari fu arrestato per tangenti il 9 marzo 1993, in piena Tangentopoli. Il 15 luglio dello stesso anno, al termine dell’ennesimo interrogatorio, il pm manifestò l’intenzione di scarcerarlo, ma il 20 luglio De Pasquale ci ripensò. Il giorno successivo, il numero uno dell’Eni si tolse la vita, nel carcere di San Vittore, infilandosi un sacchetto di plastica in testa.
Quella del premier è una ricostruzione in netto contrasto con quelle che furono le conclusioni degli ispettori ministeriali inviati alla procura di Milano nel 1993 dal guardasigilli Giovanni Conso. Né quell’ispezione, né tantomeno un’inchiesta sollecitata nel ‘94 dal ministro del primo governo Berlusconi, Filippo Mancuso, giunsero ad accertare irregolarità nel comportamento del magistrato milanese. “Appare assai difficile – scrivevano allora gli ispettori Ugo Dinacci e Vincenzo Nardi al termine del loro lavoro investigativo – collegare il suicidio del Cagliari ai comportamenti del dottor De Pasquale, in quanto va tenuto conto delle numerose lettere indirizzate ai familiari che egli ha lasciato scritte dal 3 luglio in poi”.

Gli ispettori ministeriali avranno di certo fatto il loro dovere, e avranno tratto dalle lettere di Cagliari le conclusioni giuste, e probabilmente quindi non ci fu nessuna negligenza da parte di De Pasquale rispetto alla valutazione di quello che interrogatori, detenzione e pressione avrebbero potuto causare nella testa del detenuto. Però tutte le volte che si ricostruisce quella storia non bisognerebbe mai trascurare di citarne una, delle lettere di Cagliari, quella che scrisse a sua moglie prima di uccidersi, per “tenere conto” di tutto.

L’obiettivo di questi magistrati, quelli della Procura di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi dell’opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”.
Secondo questi magistrati, ad ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’amministrazione pubblica o para-pubblica, ma anche nelle amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario.
La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura, psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima. Qui dentro ciascuno è abbandonato a se stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività e nell’ignavia; la gente impigrisce, istupidisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un ulteriore plicatore di malavita.
Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrazione che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità.
Io non ci voglio essere. Hanno distrutto la dignità dell’intera categoria degli avvocati penalisti, ormai incapaci di dibattere e di reagire alle continue violazioni del nostro fondamentale diritto di essere inquisiti, e giudicati poi, in accordo con le leggi della Repubblica. Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della società, a perdere questa guerra; ma è l’intera nazione che ne soffrirà le conseguenze per molto tempo a venire.
Già oggi i processi, e non solo a Milano, sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate, comminate da giudici che a malapena conoscono il caso, sonnecchiando o addirittura dormendo durante le udienze per poi decidere in cinque minuti di camera di consiglio. Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti anche loro ai pubblici ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che infieriscono sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne calpestano continuamente i diritti.
L’accelerazione dei processi, invocata e favorita dal ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione dei tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo. Quei pochi di noi caduti nelle mani di questa “giustizia” rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionalegenerata da questa rivoluzione.
Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. E’ una decisione che prendo in tutta lucidità e coscienza, con la certezza di fare una cosa giusta. Le responsabilità per colpe che posso avere commesso sono esclusivamente mie e, mie, sono le conseguenze.
Esiste certamente il pericolo che molti altri possano attribuirmi colpe non mie quando non potrò più difendermi.
Affidatevi alla mia coscienza, in questo momento di verità totale, per difendere e conservare sul mio nome la dignità che gli spetta.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).