Ammè non mi guida nessuno, ammé!

Oggi c’è una bella intervista a Elio e le Storie Tese su Repubblica, bella perché loro dicono diverse cose intelligenti e non banali (mentre ultimamente è diventato banale e prevedibile quasi tutto quello che accade e si dice intorno a Elio e le Storie Tese). Tra le altre risposte, però, a un certo punto Elio dice una cosa banale sì:

«Il pubblico va guidato, indirizzato»

Quello che rende originale questa frase è che la dica Elio, mettendo in crisi il cliché che vorrebbe che simili pensieri siano solo nella testa di soloni, snob, e prepotenti intellettuali stalinisti (lo stesso, vedo che ha generato irritazioni in giro). Il ruolo “educativo” di ogni cosa che facciamo, e di chi ha strumenti per trasmettere agli altri la propria cultura e competenza, è infatti indiscutibile: ma è sistematicamente ostacolato da un’ipersensibilità infantile che abbiamo tutti nei confronti dell’idea che qualcuno ci guidi, ci educhi, ci indirizzi, ci dia lezioni (cosa sto facendo, io qui: se non cercare di guidare, indirizzare?). Quanto si debba essere quindi attenti a non urtare sensibilità lo aveva notato anche Montanelli, prima di me (qui c’è Roman Vlad, invece; e qui un astrofisico americano): ma io ne ho scritto una cosa lunga che incollo volentieri qui.

Il confronto delle idee e delle riflessioni è il primo meccanismo di costruzione del sapere e di un’opinione informata sulle cose. Che a loro volta sono ciò su cui si costruisce una società migliore: capire le cose, capire cosa è giusto, di volta in volta, e fare scelte sagge e informate. Ci sono le cose giuste e le cose sbagliate, e bisogna fare quelle giuste. Lo si ottiene solo studiando, accettando lezioni, prendendo ogni informazione come un insegnamento e un pezzo in più del proprio tesoro di conoscenze (anche quando la si scarta o accantona). Questo ci attribuisce una doppia responsabilità, corrispondente al doppio dovere che abbiamo nella vita, il miglioramento di noi stessi e del mondo. La rispiego all’indietro, scusate: il mondo si migliora migliorando noi stessi e gli altri e rendendoci disponibili a essere migliorati da noi stessi e dagli altri. La prima cosa si ottiene diffondendo e offrendo agli altri le cose che sappiamo e che abbiamo capito, in particolare su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato e sugli strumenti per capirlo. Impartendo lezioni.8 La seconda cosa si ottiene simmetricamente accettando lezioni. È un circolo virtuoso, sempre più frequentemente interrotto dagli atteggiamenti di cui abbiamo detto. E che riguarda in modo uguale – anche il loro rapporto crea un circolo virtuoso o vizioso – la società e noialtri persone da una parte, e la politica dall’altra.

Mi pare che siano due i principali ostacoli alla ricostruzione di questo circolo virtuoso. Uno è quello psicologico di cui ho parlato e che sta dietro alle accuse di snobismo, presunzione di superiorità morale, supponenza, distanza dal «paese reale» che bollano chi provi a migliorarlo, il paese reale, a cominciare da se stesso: come si permette? Chi si crede di essere? Ancora di più se non ha una posizione di potere riconosciuto che lo risparmi dalle suddette domande (siamo conformisti: in competizione con i nostri pari, e discreti con i nostri superiori). L’altro ostacolo è un’intolleranza linguistica. Una riprovazione sociale per alcune parole, che ci acceca sul loro reale significato e valore.9 Non sopportiamo «lezioni». Non sopportiamo che qualcuno ci «insegni» delle cose. Nessuno si permetta di «educarci», malgrado educare significhi letteralmente «condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto». Se qualcuno mi educa vuol dire che sono maleducato, pensiamo. Se qualcuno mi insegna, vuol dire che sono ignorante. Se qualcuno mi spiega, vuol dire che non ho capito. Sono un imbecille. E la mia insicurezza – che mi suggerisce che lo sia davvero – me lo rende ulteriormente insopportabile. E così rifiutiamo la pedagogia e l’educazione – per il loro suono infantilizzante ai nostri orecchi ignoranti e per il «crinale cagone» – e consentiamo un istupidimento generale, e una rivendicazione dell’ignoranza. Uno spesso strato di insicurezza ci si è incollato intorno e ci fa reagire a ogni cosa col timore dell’effetto che farà sulla nostra immagine agli occhi degli altri. Ogni volta che qualcuno ci riempie il bicchiere ci affrettiamo a cercare giustificazioni per il fatto che fosse vuoto. Viviamo ogni umana mancanza come un pubblico fallimento. Siamo preoccupatissimi dell’effetto che facciamo, e troppo insicuri per far diventare quest’ansia uno stimolo piuttosto che un incentivo alla fuga.

La nostra capacità di educare si esperimenta realisticamente in noi stessi: educando noi, avremo educato gli altri.

Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale

Per finire: tutto questo non si risolve analizzandolo. Analizzare serve a capire, e discutere serve a capire. E capire serve ad affrontare. In questo caso però capire e discutere sono ostacolati dal limite stesso di cui stavamo parlando: l’indisponibilità a capire e discutere. Come si impara ad accettare lezioni, come si accettano lezioni sull’accettare lezioni? Si lavora sulle parole, muovendosi ipocritamente in punta di piedi e usando una correttezza politico-linguistica che eviti termini sensatissimi ma potenzialmente offensivi alle nostre sensibilità?10 (come avrete notato, l’ho fatto pavidamente io stesso in diversi punti di questa esposizione, che alcuni troveranno quindi troppo cauta e altri troppo saccente). A un certo punto dentro I barbari, Baricco parla in maniera molto acuta di quanto sia diventata pesante la questione della sensibilità del destinatario rispetto al contenuto delle cose che si dicono, facendo risalire la sua analisi alla lettura di un testo di Goffredo Parise (ancora! certo che ne disse di cose illuminanti, questo Parise):

D’improvviso la parola scritta spostava il suo baricentro dalla voce che la pronunciava all’orecchio che l’ascoltava. Per così dire, risaliva in superficie, e andava a cercarsi il transito del mondo: a costo di perdere, nel commiato dalle sue radici, tutto il suo valore.

La parola scritta a un certo punto è diventata comunicazione dove prima era espressione, dice Baricco. E ne consegue che qualsiasi successivo tentativo di espressione deve oggi fare i conti col fatto che verrà sempre recepito come comunicazione: «cosa mi stai dicendo?», «cosa vuoi farmi pensare?», «dove vai a parare?», «dove va a parare questo libro?», «sì, sì, ma quindi?».

E insomma, cosa si fa? Si lavora sulle parole così tanto da far diventare iperespressiva la comunicazione?

Si fa una grande autoanalisi collettiva? Si rinuncia?

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8 Non solo abbiamo difficoltà ad accettare lezioni, ma quando possono essere buone e proficue siamo persino riluttanti a darle. Non sia mai che miglioriamo la vita a qualcuno. L’imprenditore Alessandro Mannarini, intervistato dal «Corriere della Sera» sui festini del suo amico Gianpaolo Tarantini con droga e sfruttamento della prostituzione, rispose candidamente: «L’ho visto fare agli altri ma ciascuno in vacanza fa ciò che vuole. Mica potevo ergermi a moralizzatore».

9 Richard Thaler e Cass Sunstein, nel loro popolare saggio Nudge, avvertono dall’inizio il lettore di una simile difficoltà linguistica. Chiamano il loro atteggiamento politico «paternalismo libertario», sapendo bene «che i lettori non troveranno questa espressione di loro immediato gradimento», perché entrambi i termini «sono stati presi in ostaggio dai dogmatisti».

10 Fofi usa questa formula, attenta alle sensibilità e alternativa all’uso di verbi malvisti come «insegnare» ed «educare»: «(L’uomo si aiuta) aiutandolo a tirar fuori da sé la capacità di capire il mondo e di trovarvi un proprio posto, attivo e solidale».


Vedi anche:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).