A sorpresa, una prova d’appello per il Pd

Contrordine, rimettiamo nei cassetti gli epitaffi per il Pd. Allo scadere del trimestre più nero del centrosinistra, inatteso si apre uno squarcio di luce.

Non bisogna farsi illusioni, né sulle ragioni né sulla durata di questa improvvisa primavera democratica. Diciamo però che gli elettori, votando o non votando, si sono espressi chiaramente: hanno deciso di concedere una prova d’appello al centrosinistra ferito; hanno riportato il centrodestra indietro rispetto all’ubriacatura della peraltro inesistente “rimonta berlusconiana”; infine – dato più evidente e incontrovertibile – hanno ritirato l’affidavit della rabbia e della protesta che era stato messo tutto nelle mani di Beppe Grillo.

Non sarebbe corretto trarre indicazioni nazionali da una tornata parziale di amministrative. Ma se in ballo c’è Roma, e se i risultati a partire dall’astensione hanno una costante su tutto il territorio nazionale, allora la lezione da trarre c’è tutta.
È evidente il riflusso dello tsunami grillino.
Non è però un ritorno all’antico. Pd e Pdl ristabiliscono fra di loro rapporti di forza tradizionali nelle amministrative (a favore del Pd), lo fanno però senza recuperare i milioni di voti perduti in febbraio. Semplicemente, l’elettorato deluso torna in stand-by. Nell’area di parcheggio. Lascia Grillo e i grillini ai loro scontrini fiscali e alle loro ossessioni sui complotti mediatici (ribadite anche ieri da De Vito); se e dove può fa una puntata rapida su altre proposte trasversali (Marchini); in generale si chiama fuori, rinnovando un giudizio negativo sulle proposte politiche e sullo stato della democrazia in Italia.
Dovunque, dal Nord al Sud e soprattutto a Roma, il centrosinistra si ritrova meglio piazzato per giocarsi questa inattesa e forse immeritata chance di rinascita.

Come è potuto succedere? Non ci aspettavamo il contrario, dopo gli orrori delle elezioni per il Quirinale, l’adesione dolorosa al governo di larghe intese e la crisi di leadership del Pd?
C’è un merito che va riconosciuto ai candidati, che si confermano la vera forza del centrosinistra, e in particolare a Ignazio Marino. E poi c’è il fatto reciproco di quanto accadde a febbraio: allora M5S vinse più per demeriti altrui che per i meriti propri, oggi evidentemente succede la stessa cosa a ruoli invertiti.
In tutta Italia, al riparo dal condizionamento operato dalla polemica politica nazionale, torna a farsi valere il vantaggio competitivo di personalità quasi ovunque e quasi sempre di migliore qualità rispetto agli avversari. Si impone la legge dei municipi, del rapporto diretto con i cittadini, dove il valore individuale del candidato fa premio su tutto il resto.

Il risultato di Marino è francamente sorprendente. Per capirlo basta confrontare il suo abbondante 43 per cento con il 45,3 per cento che Nicola Zingaretti prese in città in febbraio: e stiamo parlando di un candidato molto più conosciuto, a lungo “coltivato” proprio come possibile sindaco, quando ancora doveva scatenarsi la furia degli orrori e degli errori del Pd.
Eguagliare il risultato di Zingaretti era oltre le aspettative. Si vede che ha funzionato quel presentarsi di Marino come un alieno rispetto alle dinamiche politiche romane. Tra l’altro, va a suo merito di aver sfidato e sconfitto la campagna ostile scatenatagli contro dal Messaggero di Caltagirone, il più grande giornale della capitale.

A proposito di aspettative, erano cresciute nelle ultime settimane quelle di Gianni Alemanno. Qui invece siamo a un brusco risveglio nella realtà. Il distacco subìto è enorme, a riprova di un giudizio pesantemente negativo di cinque anni che nessuno a Roma può ricordare se non con scherno o con fastidio.
I sondaggi della vigilia erano molto più positivi per il sindaco uscente. Sono stati smentiti dal mostruoso astensionismo, un record per Roma: vuol dire che il centrodestra viene ricacciato nella sua condizione pre-elezioni di febbraio, nell’abbandono di gran parte del suo elettorato tradizionale.
Con nessun candidato promosso ai ballottaggi, anche Cinquestelle viene malamente respinto, ridimensionato allo stato di formazione importante ma condannata all’opposizione, senza margini di vittoria, di manovra, di alleanza.

Questo della sconfitta di Grillo è un vero dato nazionale.
Vedremo se la delusione alle amministrative, al di là delle scuse accampate nelle prime ore che fanno molto vecchia politica, causerà nelle file di Cinquestelle le turbolenze che sono state più volte preannunciate dalla stampa che segue il movimento in parlamento, fino a ipotizzare scissioni o cose del genere. Quel che è certo è che M5S, proprio in quanto movimento, si regge soltanto se rimane continuamente in moto, e in avanti. La reazione allo stop sarà la vera prova di maturità, che però già corrisponde a una prova di sopravvivenza.

Quella che rimane al Pd e al centrosinistra è una prova d’appello, dopo la sua stagione più nera. Le profezie di sventura inevitabile sono state sventate. Il trionfalismo però sarebbe fuori luogo.
I voti decisivi non solo per vincere, ma per governare, rimangono tutti fuori dal perimetro delle conquiste odierne di Marino e dei suoi colleghi candidati. Sono tutti in quello stato, tornato gassoso, a metà tra astensione, grillismo e dispersione.
Possiamo dare per scontato che il governo Letta e gli equilibri politici nazionali saranno tenuti al riparo, sia dallo scontro per i ballottaggi che dalle polemiche locali.
Ciò non di meno, il tema per il Pd rimane lo stesso: la domanda di una cosa nuova nel paese c’è, è forte, e ha già consumato anche Cinquestelle. Si riapre uno spazio, evidentemente ben oltre il centrosinistra. Questo, non altri, sarà il tema del congresso.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.