L’anno dell’intelligenza artificiale

Nel 2025 i chatbot sono diventati strumenti di massa e gli investimenti si sono accumulati, così come i problemi e i timori

Un tecnico in un data center di Amazon Web Services, nell'ottobre del 2025. (Noah Berger/Amazon Web Services via AP Images)
Un tecnico in un data center di Amazon Web Services, nell'ottobre del 2025. (Noah Berger/Amazon Web Services via AP Images)
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Nel gennaio del 1950 la rivista Time dedicò la copertina a Mark III, un calcolatore della marina statunitense, accompagnandola con una domanda: «Può l’uomo costruire un superuomo?». All’epoca l’idea di un computer in grado di superare le capacità intellettive di un essere umano apparteneva più alla fantascienza che alla realtà. Oggi non più, tanto che le sue implicazioni e applicazioni hanno dominato la discussione mediatica nel corso di tutto il 2025, un anno che si è concluso con un’altra copertina di Time, che ha scelto «gli architetti delle intelligenze artificiali» come persone dell’anno.

È probabile che se tra qualche decennio si dovrà indicare l’anno in cui i software di AI sono entrati definitivamente nelle vite delle persone, si sceglierà il 2025. È stato l’anno in cui le foto e i video creati dall’AI hanno iniziato a sembrare veri per davvero, e in cui anche quei settori professionali e produttivi che finora non lo avevano fatto hanno dovuto confrontarsi con i cambiamenti portati da queste tecnologie. Ma il 2025 è stato anche l’anno in cui per moltissime persone è diventato normale rivolgersi ai chatbot di AI per questioni quotidiane, pratiche ma anche psicologiche.

Nel dicembre del 2024, secondo OpenAI, ChatGPT aveva 300 milioni di utenti settimanali: a novembre del 2025 ne aveva quasi il triplo, 810 milioni. Se già negli anni scorsi i software di AI avevano sostituito i precedenti strumenti di lavoro per molti professionisti, è negli ultimi dodici mesi che ChatGPT, Gemini e chatbot analoghi sono diventati uno strumento di massa, al pari dei browser per navigare su internet alla fine degli anni Novanta.

Sempre più persone hanno iniziato a sostituire i motori di ricerca come Google con i chatbot: nonostante il rischio di errori e allucinazioni, infatti, la possibilità di ricevere risposte complete rappresenta per alcuni un’esperienza migliore della solita ricerca online. Le AI sono particolarmente diffuse tra i più giovani perché sono molto usate a scuola, sia per fare i compiti (o farli fare all’AI), sia come supporto allo studio. Secondo una ricerca recente, un terzo dei teenager statunitensi interagisce con un chatbot quotidianamente.

A diffondere le AI tra gli adulti, specie al lavoro, contribuiscono invece programmi come il pacchetto Microsoft 365, su cui l’azienda punta per promuovere il suo chatbot Copilot. Queste tecnologie hanno già avuto un impatto sul fronte occupazionale, soprattutto su settori come la programmazione informatica: secondo il sito TechCrunch, infatti, nel solo 2025 le aziende tecnologiche statunitensi hanno licenziato circa 150 mila dipendenti, giustificandosi spesso con l’ottimizzazione resa possibile dalle AI.

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Il 2025 è stato anche l’anno della riscossa di Google, che dopo essere rimasta a lungo indietro negli ultimi mesi ha reso disponibile online prodotti di punta come Nano Banana Pro (un generatore di immagini e video molto realistici) e il modello linguistico Gemini 3, considerato il più avanzato del mondo. Una rimonta simile non è riuscita invece ad Apple, che non ha ancora una strategia chiara per le AI. Anche per questo, nel corso del 2025, l’azienda ha perso dirigenti e personale qualificato, soprattutto a causa di Meta, che la scorsa estate ha speso decine di miliardi di dollari per acquisire la startup Scale AI e assumere ingegneri dalla concorrenza.

Ma gli investimenti massicci hanno riguardato decine di aziende, tanto che per tutto l’anno la discussione sui nuovi modelli e sulle loro applicazioni si è accompagnata al timore sempre più diffuso di una bolla, causata dagli eccessivi investimenti nei data center, che ha rappresentato il 40 per cento della crescita economica degli Stati Uniti nel 2025. Come ha scritto il Financial Times, «l’America è ormai una grande scommessa sull’AI», alimentata dalla concorrenza interna e con la Cina.

L’ansia per il progresso tecnologico cinese è stata una costante per tutto l’anno. Il 2025, infatti, era cominciato con un evento traumatico per tutto il settore tecnologico, quando DeepSeek, un’azienda cinese all’epoca sconosciuta ai più, presentò modelli AI paragonabili a quelli occidentali ma meno costosi da sviluppare, causando perdite per mille miliardi di dollari nella borsa statunitense.

Nonostante tutto, l’emergenza rientrò nel giro di pochi giorni e il settore continua a essere dominato da aziende e startup statunitensi, come OpenAI, Google e Anthropic. A queste vanno aggiunte anche Meta e servizi come Cursor, progettati per la generazione di codice informatico. L’avanzata cinese nel settore non si è però fermata con DeepSeek, come dimostrano i modelli di Z.AI, Xiaomi e Kimi, alcuni dei modelli più potenti al mondo, mentre l’unica azienda europea nel campo delle AI rimane Mistral (seppur con minime percentuali di mercato).

In tutto questo, ChatGPT rimane ancora oggi il chatbot più usato al mondo, anche se le alternative sono sempre più numerose e vengono usate nei modi più disparati, non solo per lavoro o studio. Il 2025 è stato l’anno in cui le storie di relazioni con i chatbot finite molto male sono diventate un genere letterario sui giornali. In una delle più rilanciate, lo scorso agosto, il New York Times aveva raccontato il caso di un sedicenne che si era suicidato negli Stati Uniti in seguito a una serie di problemi di salute mentale. Nel corso degli ultimi mesi di vita, il ragazzo aveva cominciato a chattare sempre di più con ChatGPT-4o, un modello di OpenAI, che usava inizialmente per fare i compiti e aveva in seguito raccolto le sue confidenze senza allertare nessuno delle sue intenzioni dichiarate.

ChatGPT-4o è stato uno degli esempi più evidenti di una tendenza ormai consolidata nel settore: chatbot progettati per assecondare gli utenti in quasi ogni circostanza, al punto che il capo di OpenAI, Sam Altman, li definì «lecchini». Per risolvere questo problema, OpenAI dotò il suo nuovo modello, GPT-5, uscito ad agosto, di un tono più secco e meno accomodante, per proteggere la salute mentale degli utenti più fragili ed evitare la cosiddetta «psicosi da AI». Nei mesi successivi, tuttavia, l’azienda ha fatto marcia indietro, tanto che Altman ha annunciato che a partire dal 2026 gli utenti maggiorenni potranno discutere di temi erotici e sensibili con il chatbot.

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Anche settori che in passato avevano avuto atteggiamenti più diffidenti e battaglieri nei confronti dell’AI, nel corso dell’anno, hanno deciso di adeguarsi: c’è stato in particolare un radicale cambiamento di approccio nei confronti del settore da parte dell’industria culturale. Negli anni precedenti, infatti, OpenAI era stata denunciata per violazione del copyright da autori ed editori come il New York Times, mentre le startup Udio e Suno, che generano musica a partire da input testuali, erano state denunciate da molte case discografiche, tra cui Universal, Sony e Warner.

Negli scorsi mesi lo scenario è cambiato. Suno e Udio vengono ormai usate da alcuni musicisti professionisti e brani generati con l’AI sono entrati in alcune classifiche, come quella del country negli Stati Uniti. Ma soprattutto, Universal e Suno hanno chiuso il contenzioso con un accordo di licenza che permette a Suno di usare il catalogo Universal pagando le dovute royalties, e anche Warner e Udio hanno siglato un’intesa simile.

Lo stesso è accaduto con i video. Uno dei prodotti più discussi dell’anno è stato Sora 2, il nuovo modello di OpenAI per generare video, affiancato da Sora, un social network simile a TikTok dedicato ai contenuti generati. L’anno si è chiuso con un investimento da un miliardo di dollari di Disney in OpenAI, che renderà disponibili i suoi personaggi e le sue storie agli utenti di Sora per generare video.

Anche Meta e Google hanno presentato prodotti simili a Sora, che stanno già avendo grosse ripercussioni sui social network, sempre più affollati di paccottiglia generata con l’AI. La pervasività di questi contenuti su YouTube, Instagram, Facebook e TikTok ha reso popolare l’espressione dispregiativa slop («sbobba»), scelta dal dizionario Merriam-Webster come parola dell’anno per il 2025.

Queste applicazioni dozzinali delle AI da parte del pubblico non erano parte della promessa originaria del settore, che aveva assicurato invece l’avvento di una «AGI» (Artificial General Intelligence), un supposto livello superiore di AI in grado di superare quella umana e di cambiare per sempre la società, di cui però non c’è ancora traccia. Un’altra promessa del settore erano gli «agenti», dei programmi AI in grado di eseguire azioni e ricerche online autonomamente per conto dell’utente, che avrebbero rivoluzionato il modo di usare il web e i nostri dispositivi. Gli agenti erano alla base di nuovi browser pensati per le AI – come ChatGPT Atlas, presentato da OpenAI quest’anno – che finora non si sono rivelati all’altezza degli annunci.

Al netto dell’enorme hype rimane quindi difficile fare un bilancio del settore: l’utenza delle AI è in crescita ma rimangono dubbi sulla sostenibilità degli investimenti e sulla mancanza di un modello di business per queste aziende. Al centro di questi timori c’è proprio l’azienda che più di ogni altra ha guadagnato dalla corsa alle AI, Nvidia, che ha una quota di mercato superiore al 90 per cento nelle GPU, i potenti chip fondamentali per lo sviluppo di queste tecnologie. Nel corso dell’anno, Nvidia ha investito in molte aziende del settore (come OpenAI e CoreWeave, che si occupa di data center), che a loro volta hanno come principale fornitore Nvidia: è anche questo genere di accordi «circolari» tra le stesse aziende a preoccupare molti analisti finanziari.

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Nonostante tutto, comunque Nvidia ha chiuso l’anno con un’enorme concessione da parte di Trump, che ha permesso all’azienda di tornare a vendere in Cina le sue GPU più avanzate, dove da tempo erano vietate per tentare di ostacolare il progresso del settore AI locale. La decisione di Trump è stata criticata da molti: il Wall Street Journal ha paragonato le GPU ai primi supercomputer (come lo stesso Mark III), ricordando che durante la Guerra fredda nessuna azienda statunitense avrebbe potuto venderli all’Unione Sovietica.