A Prato le aziende di moda stanno iniziando a fare i conti con lo sfruttamento
Il caso di un lavoratore pestato mentre scioperava ha innescato per la prima volta una discussione diversa

Da pochi mesi a Prato alcune aziende di moda hanno iniziato a fare riunioni con i sindacati per capire come risolvere un caso di sfruttamento avvenuto dentro una ditta con cui lavoravano. A Prato problemi di questo tipo emergono di frequente, perché ci sono molte piccole e medie aziende che lavorano nel settore tessile e nella moda svolgendo lavori commissionati da altre più grandi. In questi anni ci sono stati molti scioperi di protesta dei lavoratori per i casi denunciati di sfruttamento, e in più occasioni chi protestava ha subìto aggressioni.
Quello cominciato a Prato è un confronto importante perché coinvolge tutte le aziende della filiera, perché è la prima volta che si avvia un percorso del genere e perché il sindacato spera di raggiungere un obiettivo molto ambizioso: far capire che tutti sono responsabili dei casi di sfruttamento all’interno della filiera della moda, dalla piccola ditta che stira i vestiti fino alla grande azienda committente che ci appone il proprio marchio.
La filiera della moda tipicamente funziona proprio così: ci sono aziende più grandi che affidano parte del lavoro a quelle più piccole, che a loro volta lo subappaltano del tutto o in parte ad aziende ancora più piccole, come quella accusata di avere sfruttato i lavoratori. Questa piccola azienda si chiama Alba srl e fino allo scorso settembre si occupava di cucire e stirare capi di abbigliamento per conto di diversi marchi di moda.
Ha chiuso dopo diversi scioperi e dopo che i titolari avevano preso a calci e pugni un lavoratore che stava partecipando a uno sciopero insieme a colleghi e attivisti del Sudd Cobas Prato Firenze (il sindacato di base che segue i casi di sfruttamento in questo settore a Prato). Sull’aggressione la procura di Prato ha aperto un’inchiesta per violenza privata e lesioni personali. Con la chiusura 18 persone hanno perso il lavoro, e ora l’obiettivo più immediato è trovare loro un nuovo posto: l’ultima riunione tra aziende e sindacati però è stata fatta il 19 dicembre e ancora non è stata trovata una soluzione definitiva.
I problemi con Alba erano in realtà cominciati quasi un anno fa, quando il Sudd Cobas aveva scoperto che diversi dipendenti, pur lavorando nello stabilimento di Alba, erano formalmente assunti da un’altra società, con il contratto collettivo nazionale delle pulizie (quindi un contratto diverso da quello corrispondente alle loro reali mansioni) e stipendi bassissimi. In precedenza, sempre secondo quanto ricostruito dal sindacato, erano stati dipendenti di un’altra società sempre riconducibile ad Alba, che era sparita senza pagare il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) e le tredicesime.
Dopo i primi scioperi, a febbraio Alba aveva stabilizzato i lavoratori con contratti del tessile a tempo indeterminato. Nei mesi successivi però il sindacato aveva verificato che erano stati aperti altri stabilimenti, sempre riconducibili ad Alba: uno di questi era stato intestato a un responsabile originario del Bangladesh, che aveva fatto arrivare a Prato altri lavoratori bangladesi costringendoli poi a lavorare con turni da dodici ore e a dormire in un alloggio intestato sempre a lui.
Gli scioperi erano quindi ricominciati, con picchetti permanenti davanti agli stabilimenti riconducibili ad Alba, fino all’aggressione del 16 settembre. Il video che la riprendeva era circolato parecchio e di questo caso si era parlato molto, anche perché l’attenzione mediatica su Prato è elevata da mesi per via dei numerosi casi di sfruttamento denunciati dentro aziende di abbigliamento a conduzione cinese e per via della cosiddetta “guerra delle grucce”, come sono stati chiamati in gergo giornalistico gli scontri tra gruppi criminali che vogliono controllare la produzione di grucce e la logistica dell’abbigliamento.
Come ha però dimostrato la vicenda di Alba, i problemi non riguardano solo le ditte cinesi (in questo caso i titolari sono italiani): è anche per questo che la provincia di Prato ha deciso di convocare un “tavolo” (cioè una serie di riunioni) per affrontare la questione. Il presidente della provincia, Simone Calamai, è peraltro anche il sindaco di Montemurlo, il comune limitrofo a Prato dove si trovava Alba e dove oggi ha sede la gran parte delle aziende tessili pratesi.
La prima riunione in provincia si è tenuta il 26 settembre, e oltre al Sudd Cobas hanno partecipato solo due società intermedie della filiera, il Lanificio Nello Gori e il Lanificio Roma. Sono due ditte che gestiscono le commesse per conto di altre aziende. Non è stato semplice convincere i marchi committenti a partecipare alle riunioni: ci sono voluti altri scioperi, picchetti e occupazioni di negozi del centro di Prato.
Adesso fanno parte di questo “tavolo” anche Artcrafts, gruppo titolare del marchio Canadian, Dixie, Tessilform–Patrizia Pepe, e Giupel.
Francesca Ciuffi, del Sudd Cobas, dice che il sindacato vorrebbe che questa iniziativa diventasse «un modello applicabile a tutte le situazioni analoghe a quella di Alba, che purtroppo sono tante. Si tratta di stabilire regole per far sì che i committenti siano effettivamente responsabili delle commesse e di chi poi le gestisce, in modo che tutti i lavoratori della filiera siano tutelati». Per Ciuffi la questione dovrebbe estendersi a tutta Italia, dati i molti problemi di sfruttamento nella moda che stanno emergendo anche altrove, per esempio nelle numerose inchieste aperte dalla procura di Milano contro diversi marchi.
Da questo punto di vista, il Sudd Cobas a Prato sta un po’ cercando di fare dal basso quello che la procura di Milano fa dall’alto, cioè costringere le aziende di moda a capo della filiera a prendersi le loro responsabilità. I metodi sono diversi, ma l’obiettivo è lo stesso.
– Leggi anche: Diversi marchi di moda dovranno dimostrare che nelle loro filiere non c’è sfruttamento
Ciuffi dice che oggi il sistema della moda «si basa ancora sulle certificazioni private delle aziende, che di fatto garantiscono la propria correttezza da sole, e che si è dimostrato ampiamente fallimentare. Anche la Alba le aveva, e però poi dentro c’erano persone che lavoravano in condizioni di semi-schiavitù».
Ora è stata individuata un’azienda interessata a stabilirsi a Prato: è disposta ad assumere i 18 ex dipendenti di Alba prendendo le stesse commesse. Sono già stati fatti diversi incontri tra questa società e le aziende committenti per trovare un accordo. In sostanza devono capire la fattibilità dell’operazione, cosa non facile perché mancano i documenti con le indicazioni sulle quantità e sulle tariffe dei prodotti forniti dalle aziende della filiera, spiega Ciuffi. «La moda è un settore estremamente frammentato, deregolamentato e poco trasparente, quindi è essenziale riuscire a ricostruire tutti gli elementi».
I presupposti per l’accordo comunque ci sono. Va chiuso però entro la fine di gennaio, perché a marzo inizia il periodo di lavoro più intenso per le stirerie, che devono occuparsi degli abiti in uscita con la nuova collezione. Alla nuova azienda serve il tempo necessario per aprire, e farlo in tempo per non essere tagliata fuori dal periodo in cui la sua attività serve. Intanto il picchetto permanente davanti agli stabilimenti di Alba prosegue, giorno e notte: i sindacalisti del Sudd Cobas non ci saranno solo nei giorni di Natale e di Santo Stefano, il 25 e il 26 dicembre, ma al presidio rimarranno i lavoratori, che sono perlopiù originari di Bangladesh, Afghanistan e Pakistan.



