Il riscatto della laurea conviene?

Dipende: di certo vuol dire scommettere sul fatto che in futuro lo Stato non si rimangerà quanto promesso, come sta succedendo invece in questi giorni

Una studentessa nel cortile dell'Accademia di Belle Arti di Brera(AP Photo/Luca Bruno)
Una studentessa nel cortile dell'Accademia di Belle Arti di Brera
(AP Photo/Luca Bruno)
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Il provvedimento molto penalizzante che il governo aveva inserito nella legge di bilancio sul riscatto della laurea (e su cui poi ha detto di voler tornare indietro) mostra molto bene quanto questo strumento sia una scommessa sul futuro: sulla carta in effetti sembra molto conveniente, ma non è detto lo sia davvero, soprattutto perché le regole sulle pensioni sono sempre suscettibili di cambiamenti e possono in qualsiasi momento renderlo un pessimo affare.

Il riscatto della laurea è una pratica con cui si pagano i contributi per gli anni in cui si è frequentato l’università. I contributi sono quella parte della retribuzione che i lavoratori devono versare per legge all’INPS o alla propria cassa di previdenza di categoria, e che faranno loro maturare il diritto alla pensione. Semplificando molto, il principio di fondo del riscatto della laurea è che versando i contributi anche per gli anni dell’università è come se si fosse iniziato a lavorare prima, a maturare i contributi prima, e che quindi in futuro sarà anche possibile andare in pensione prima. Se un lavoratore ha iniziato a lavorare a 28 anni, riscattando la laurea triennale è come se avesse iniziato a 25, e se ci aggiunge la magistrale a 23.

La condizione necessaria per il riscatto è che si sia effettivamente conseguito il titolo di studio (laurea, diploma universitario, dottorato, e via così), non basta quindi aver solamente frequentato. Si possono riscattare tutti o solo una parte degli anni degli studi, con l’eccezione di quelli fuori corso, e li può riscattare chiunque: i lavoratori dipendenti e autonomi, chi non lavora, gli studenti appena usciti dall’università che ancora non hanno iniziato a lavorare, i genitori per i figli, e via così. Ovviamente il riscatto ha un prezzo.

Una laureata a Roma (AP Photo/Gregorio Borgia)

Quanto costa riscattare la laurea
Migliaia di euro, a volte decine di migliaia, a seconda della retribuzione al momento della domanda. Le modalità per stabilire l’importo del riscatto cambiano a seconda che si sia frequentato l’università prima o dopo il 1996, anno a partire dal quale in Italia è in vigore il sistema contributivo: è quello per cui la pensione che spetta è legata ai contributi versati, mentre prima c’era il sistema retributivo che la faceva risultare molto simile agli ultimi stipendi ricevuti durante la carriera.

Se gli anni da riscattare sono prima del 1996 rientrano nel sistema retributivo, e in questo caso i calcoli sono abbastanza complessi: variano in base all’età, al genere, a quanti anni si vuole riscattare, all’anzianità contributiva totale e alle retribuzioni percepite negli ultimi anni. I calcoli comunque li fa l’INPS o l’ente di previdenza di categoria.

Se si è frequentato l’università dopo il 1996, gli anni di università rientrano nel sistema contributivo e il meccanismo è più semplice: si prendono le retribuzioni degli ultimi 12 mesi e ci si applica l’aliquota contributiva, cioè la percentuale di contributi dovuta (la più comune è il 33 per cento, quella dei dipendenti, ma può cambiare a seconda della categoria di appartenenza, della propria cassa, se si è lavoratori autonomi, e via così).

Per esempio se nei 12 mesi prima di fare domanda di riscatto si è guadagnato 30mila euro da dipendenti, con l’aliquota del 33 per cento fa 9.900 euro di contributi all’anno: è questo l’importo da pagare per ogni anno di studi che si vuole riscattare, quindi 29.700 euro per una laurea triennale, che arrivano a 49.500 se ci si aggiungono i due anni di magistrale.

Se si vuole riscattare gli anni degli studi, conviene farlo il prima possibile perché più si va avanti nella carriera, più in teoria si guadagna, e quindi più contributi bisogna versare. D’altronde versando più contributi si avrà diritto a una pensione più alta.

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C’è anche il riscatto agevolato
Dal 2019 esiste la possibilità di riscattare gli anni di studi in modo agevolato, cioè con un grosso sconto, ma solo per gli anni dal 1996 in poi. Viene rinnovata di anno in anno, dunque non è permanente e ogni anno potrebbe essere l’ultimo in cui esiste questa opzione. Funziona così: l’INPS fa riferimento a un reddito convenzionale uguale per tutti, abbastanza basso e che cambia di anno in anno, e ci applica le aliquote del caso. Nel 2025 questo reddito era di 18.555 euro, e applicandoci l’aliquota dei dipendenti del 33 per cento faceva costare il riscatto agevolato 6.123 euro all’anno: per riscattare una triennale servono quindi poco meno di 18.500 euro, e con anche la magistrale 30.600 euro.

Il vantaggio è che si paga di meno, lo svantaggio è che poi tra gli anni contributivi figureranno questi anni con un reddito basso, che quindi abbasseranno la retribuzione media della carriera, penalizzando l’importo della pensione.

In generale bisogna comunque tenere conto che qualsiasi importo si paghi e con qualsiasi modalità (ordinaria o agevolata) questo è completamente deducibile ai fini fiscali: significa che tale importo abbatte il reddito su cui si calcolano le imposte da pagare, col risultato finale che queste saranno inferiori.

Un anziano a Napoli (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Ma quindi conviene o no?
Non esiste una risposta uguale per tutti. Come per qualsiasi scelta finanziaria la convenienza la fanno le propensioni e preferenze individuali, la situazione personale, l’obiettivo che si vuole raggiungere, e via così.

Anna Vinci è cofondatrice di Ciao Elsa, un’azienda che fa divulgazione e consulenza sulle pensioni, compreso il riscatto della laurea. Dice che intorno a questo strumento c’è un problema culturale di base, cioè la credenza che sia sempre conveniente a prescindere: si paga per aumentare gli anni di contributi, quindi deve essere per forza una buona idea. Ma questa ipotesi viene quasi sempre smentita, o quantomeno molto attenuata, da un approccio consapevole, cioè dati e informazioni alla mano.

Innanzitutto bisogna sapere che l’unico obiettivo per cui si riscatta la laurea è perché può far andare in pensione prima; non ha generalmente effetti sull’importo della pensione (tranne nel caso menzionato sopra del pagamento agevolato).

Ci sono poi tre cose da tenere in considerazione in queste valutazioni. Innanzitutto se il riscatto consentirà davvero di andare in pensione prima, date la situazione individuale e le regole pensionistiche. Poi c’è un pensiero più soggettivo da fare: cioè quanto vale la pena pagare oggi una cifra anche sostanziosa per tentare di andare in pensione qualche anno prima, una valutazione del tutto individuale sul valore che ognuno dà al proprio tempo e al proprio lavoro.

Infine bisogna tenere conto che è spesso una scelta per un futuro molto lontano, quando le regole pensionistiche potranno essere anche molto diverse (e in effetti cambiano in continuazione anche in pochi anni, soprattutto in un sistema insostenibile come quello italiano).

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Il riscatto consente sempre di andare in pensione in anticipo?
Non è così. Vinci fa l’esempio di un uomo che ha iniziato a lavorare a 30 anni. In base alle regole attuali, i modi per andare in pensione sono grossomodo tre (senza considerare le occasionali “quote”): con la pensione di vecchiaia a 67 anni, se si hanno almeno 20 anni di contributi; con la pensione anticipata, ma solo se si hanno almeno 42 anni e 10 mesi nel caso degli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne; oppure, infine, con la pensione anticipata contributiva a 64 anni, che si può avere se si hanno almeno 20 anni di contributi e se si arriva ad avere una pensione di almeno 3 volte l’assegno sociale (nel 2025 è di 7mila euro all’anno, quindi servirebbe una pensione annuale di almeno 21mila euro lordi, cioè almeno 1.600 lordi al mese).

Nell’esempio di Vinci, il lavoratore potrà pensare di andare in pensione a 67 anni con quella di vecchiaia, a quasi 73 anni con quella anticipata (ipotizzando che lavori sempre in modo continuativo e che appartenga a una categoria che consente di lavorare oltre i 67 anni), oppure a 64 anni se ha i requisiti per l’anticipata contributiva.

Ipotizziamo che il lavoratore in questione decida di riscattare tutti e cinque gli anni dei suoi studi: in questo modo è come se avesse iniziato a lavorare a 25 anni. Due modalità non sono intaccate da questa decisione: potrà comunque pensare di andare in pensione a 67 anni con la pensione di vecchiaia; e avrà sempre la possibilità di andarci a 64 anni, se ha i requisiti. La decisione impatta sull’ipotesi della pensione anticipata, spostandola da 73 a 68 anni (quasi come quella di vecchiaia, e 4 anni dopo la possibilità dell’anticipata contributiva). Se l’obiettivo era guadagnare degli anni in più di pensione, in questo caso non è raggiunto.

Se il lavoratore avesse effettivamente iniziato a lavorare a 25 anni le cose sarebbero un po’ diverse. Con il riscatto di cinque anni di studi è come se avesse iniziato a lavorare a 20 anni: rimangono uguali le ipotesi della vecchiaia a 67 anni e dell’anticipata contributiva a 64; con la pensione anticipata potrà andare in pensione a poco meno di 63 anni, invece di 68. Sono quattro anni prima della pensione di vecchiaia, ma solo uno rispetto all’ipotesi della pensione ottenuta con il metodo contributivo anticipato.

Se personalmente si pensa che la possibilità di ottenere anche solo un anno di anticipo valga tutti i soldi che servono per riscattare cinque anni di università, allora è la scelta giusta: potrebbe essere il caso di chi fa un lavoro particolarmente gravoso, per esempio. Sennò ci sono altre opzioni.

Una di queste, dice Vinci, è di versare la stessa somma in un fondo pensione, cioè un fondo di investimento privato che investe soldi per conto dei clienti e glieli restituisce con i profitti al momento della pensione: è il modo principale per integrare la pensione pubblica, che da quando il sistema è contributivo è strutturalmente sempre meno generosa.

Vinci fa un esempio concreto. Dallo scorso anno anche la pensione ottenuta grazie ai fondi privati rientra nel calcolo per i requisiti da considerare per l’opzione del pensionamento contributivo (che ricordiamo è quella per cui si può andare in pensione a 64 anni con almeno 20 anni di contributi, ma solo se si arriva a un certo importo): significa che se si versasse la stessa somma di un eventuale riscatto in un fondo pensione, questa contribuirebbe ad alzare la somma della pensione (mentre il riscatto no) e aumenterebbe la probabilità di rientrare comunque in un’ipotesi di pensione anticipata.

Un’anziana a San Luca, in Calabria (AP Photo/Pier Paolo Cito)

Infine: il riscatto è un po’ una scommessa
Dopo le valutazioni numeriche e quelle soggettive, bisogna tenere conto di una cosa che sfugge totalmente al nostro controllo: il fatto che le regole pensionistiche cambiano in continuazione, e generalmente in peggio visto che quello italiano è un sistema ancora troppo generoso per quello che il paese può permettersi.

Investire oggi decine di migliaia di euro da versare nel sistema pensionistico pubblico per riscattare gli anni dell’università è a tutti gli effetti una scommessa, perché non si può prevedere come saranno le regole tra qualche decennio. Del resto per i governi cambiare regole è anche molto facile, come si è visto con gli ultimi emendamenti alla legge di bilancio, dove per racimolare un miliardo e mezzo di euro il governo aveva proposto di decurtare i riscatti della laurea già pagati per chi andrà in pensione dal 2031.

Poi ci ha ripensato, e ha chiarito che la penalizzazione sarà solo sui riscatti futuri: se effettivamente la modifica passerà, dal 2031 un anno riscattato non varrà più in automatico un anno di contributi in più. Una norma retroattiva sarebbe stata politicamente molto penalizzante per il governo, e probabilmente sarebbe stata oggetto di numerosi ricorsi. Tuttavia la giurisprudenza ha già avuto modo di sostenere che il riscatto degli anni dell’università è di fatto una scommessa, e che non c’è tutela se poi non porta al risultato auspicato.

È successo per esempio nel caso di un lavoratore che aveva chiesto allo Stato di annullare il suo riscatto della laurea: senza entrare troppo nei dettagli, il lavoratore sosteneva che col cambiamento delle regole del sistema pensionistico che c’era stato tra la decisione di riscattare e il suo pensionamento il riscatto avesse penalizzato l’importo della sua pensione. Il caso è arrivato davanti alla Corte costituzionale, che gli ha negato la possibilità di annullare la sua decisione, sostenendo che il riscatto degli anni di laurea è «una sorta di negozio aleatorio che può non sortire i positivi effetti sperati».

– Ascolta Wilson: La colossale ingiustizia delle pensioni