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  • Lunedì 15 dicembre 2025

Perché migliaia di ricercatori universitari perderanno il lavoro

Il governo ha prima rimandato il problema, poi l’ha nascosto coi soldi del PNRR: ora però sono finiti

Una manifestazione dei ricercatori e delle ricercatrici universitarie contro il precariato (Enrico Pretto/LaPresse)
Una manifestazione dei ricercatori e delle ricercatrici universitarie contro il precariato (Enrico Pretto/LaPresse)
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Vista da due parti opposte, dal governo o dai sindacati, la conclusione che sintetizza uno dei problemi più gravi dell’università è identica: ci sono troppi ricercatori precari. Le due possibili soluzioni invece sono molto diverse e inconciliabili. Da anni i sindacati e le associazioni dei ricercatori chiedono di limitare il precariato dando più soldi alle università, molti più di quanti il governo ne abbia dati negli ultimi anni, mentre il governo è disposto a rinnovare solo una piccola parte dei contratti, di fatto rinunciando a migliaia di ricercatori e ricercatrici. Di questa distanza si sapeva già da tempo, ma nei prossimi mesi il problema sarà molto evidente perché scadrà la maggior parte dei contratti e migliaia di persone rimarranno senza lavoro.

Le cose sono state complicate dal PNRR, il grande piano di riforme e investimenti da realizzare entro giugno del 2026 finanziato con fondi europei. Tutte le università italiane hanno approfittato dei soldi arrivati all’improvviso per assumere migliaia di persone a tempo determinato, sfruttando un’occasione irripetibile, senza preoccuparsi troppo di cosa sarebbe successo due o tre anni dopo, cioè ora. «Oltre che irripetibile, è stata un’occasione completamente sprecata», dice Davide Clementi, segretario nazionale dell’associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (ADI).

Il PNRR ha esasperato una precarizzazione già evidente, risultato di scelte che vengono da lontano. Negli ultimi 15 anni la quota di lavoratori con un contratto a tempo determinato è passata da circa il 20 per cento di tutti i dipendenti universitari al 42 per cento. L’aumento dipende in buona parte dalle regole introdotte nel 2010 dalla riforma Gelmini (Mariastella Gelmini, allora ministra dell’Istruzione e dell’Università nel governo di centrodestra di Silvio Berlusconi), con cui vennero sostituiti i ricercatori a tempo indeterminato (RTI) con due categorie di contratti: i ricercatori a tempo determinato di tipo A (RTDA) e di tipo B (RTDB), questi ultimi destinati a essere assunti grazie al possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, una sorta di certificazione del ministero.

Oltre ai ricercatori a tempo determinato le università hanno sfruttato un’altra forma precaria di contratto, l’assegno di ricerca, dato ai ricercatori e alle ricercatrici con contratti di collaborazione legati a un preciso studio o progetto, ma spesso usato per portare avanti i progetti a costi molto contenuti.

La novità più significativa degli ultimi anni è stata l’approvazione della legge 79 del 2022, durante il governo di Mario Draghi. L’idea era di eliminare i contratti a tempo determinato e gli assegni di ricerca per introdurre il cosiddetto contratto di ricerca, sempre a tempo determinato, ma con più tutele come la malattia, le ferie, la tredicesima, l’indennità di disoccupazione e più contributi per la pensione, e gli RTT (Ricercatori Tenure Track) che come i vecchi ricercatori di tipo B possono essere stabilizzati dopo l’abilitazione scientifica nazionale.

Nonostante la legge sia stata approvata nel 2022, per due anni il governo di Giorgia Meloni ha continuato a prorogare i vecchi contratti fino all’inizio del 2025. Come spesso accade in questi casi, il motivo ha a che fare coi soldi. Il contratto di ricerca e gli RTT, con più tutele, costano infatti di più rispetto alle forme precedenti, e i fondi messi dal governo non bastano.

Un po’ come è accaduto con la sanità, negli ultimi due anni il governo si è vantato di aver aumentato i fondi per le università, senza però tenere conto dell’aumento dei costi del personale e in generale della vita. «La precarietà è quella vissuta fino a oggi, non prorogheremo i vecchi assegni senza diritti e dignità», disse nell’agosto del 2024 la ministra dell’Università Anna Maria Bernini.

Secondo le stime della Cgil, tra il 2025 e il 2026 sono scaduti o scadranno in totale 9.000 contratti di tipo A, oltre a 23.500 assegni di ricerca. Di questi, poco più di 2.600 sono stati assunti con i fondi del PNRR. «Se trattassimo l’università come un’industria, come molti sostengono, questa sarebbe una delle più gravi crisi industriali del nostro paese», dice Clementi. «Parliamo di decine di migliaia di persone che stanno per essere espulse da un sistema senza la garanzia di essere in qualche modo riassorbite o accompagnate verso altri impieghi».

Senza soldi e soprattutto senza ricercatori, molti progetti iniziati negli ultimi anni saranno rallentati o, peggio, abbandonati. Molti soldi del PNRR sono stati investiti anche per realizzare laboratori d’avanguardia, che però rischiano di non essere utilizzati appieno se saranno frequentati da molti meno ricercatori e ricercatrici.

Le associazioni dei ricercatori sottolineano anche un’altra conseguenza, e cioè che le università saranno costrette a puntare molto di più su progetti in collaborazioni con aziende e privati, limitando le ricerche più libere. È uno dei modi più veloci per avere fondi. Ne risentirà anche la didattica, perché molti ricercatori precari tengono le lezioni o comunque assistono gli studenti universitari.

Riccardo Asti, che fa parte del coordinamento dei ricercatori precari, dice che il mercato del lavoro non potrà offrire un posto per tutti i ricercatori, molti dei quali hanno più di 35 anni e si sono occupati di progetti che hanno un interesse limitato per le aziende, o in generale nel privato. Inoltre i concorsi promossi dalle università sono pochi, anzi in alcune università non ci sono proprio. «Abbiamo fatto un sondaggio a livello nazionale da cui emerge che solo il 13 per cento dei ricercatori intervistati potrà partecipare a concorsi nella propria università».

Dopo mesi di proteste dei ricercatori, venerdì in commissione Bilancio al Senato la maggioranza ha presentato un emendamento con un piano definito straordinario per stabilizzare una parte dei ricercatori precari. Se l’emendamento sarà approvato (ma non ci sono grossi dubbi), verranno messi 50 milioni di euro per finanziare al 50 per cento i concorsi, mentre l’altra metà spetta alle università. La metà dei posti a disposizione dovrà andare ai ricercatori assunti col PNRR. La Cgil ha stimato che questi soldi basteranno per rinnovare il contratto a 1.900 persone, troppo poche secondo il sindacato.

«Invece di investire tutti i soldi del PNRR su contratti a tempo determinato si poteva spalmare quelle risorse per coprire le necessità su più anni», dice Asti. «Un’iniezione di denaro così straordinaria doveva essere quanto meno accompagnata da un piano di investimenti pubblici con effetti sul lungo termine. Non dimentichiamo che i soldi del PNRR non sono regalati: pensare che ci siamo indebitati per gonfiare la bolla dei precari nelle università è ancora più paradossale» (si riferisce al fatto che buona parte dei fondi del PNRR sono prestiti che andranno restituiti).