Oliver Sacks si prendeva qualche libertà

C’era molto di “suo” nei casi che raccontava, scrive il New Yorker sulla base di carteggi e appunti personali del famoso neurologo scrittore

Oliver Sacks nel suo ufficio a New York
Oliver Sacks nel suo ufficio a New York, nel 2001 (Sara Krulwich/The New York Times/contrasto)
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L’attività clinica e letteraria di Oliver Sacks, il più famoso neurologo scrittore del secondo Novecento, ha sempre ricevuto grandi apprezzamenti ma anche qualche critica. Una volta, citando il titolo di uno dei libri più famosi di Sacks (L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello), il bioeticista Tom Shakespeare lo definì «l’uomo che scambiò i suoi pazienti per una carriera letteraria». I suoi detrattori lo accusavano di sfruttare le storie dei suoi pazienti e anche di romanzarle, prediligendo uno stile più letterario che scientifico.

Il sospetto che Sacks (che è morto nel 2015) si prendesse una certa libertà creativa è tornato a circolare dopo un recente articolo del New Yorker. L’autrice, la giornalista e scrittrice Rachel Aviv, lo ha scritto dopo aver studiato una grande quantità di lettere e appunti personali scritti da Sacks per quarant’anni, condivisi dalla Oliver Sacks Foundation e finora in gran parte mai letti. L’articolo non sostiene che Sacks mistificasse la realtà clinica dei casi di cui si occupò, ma che l’interpretazione e il racconto di quelle storie fossero pesantemente influenzati dalla sua storia personale.

Dai diari che scrisse per tutta la vita e dalla corrispondenza emergono alcuni aspetti già noti della vita di Sacks, tra cui soprattutto la sua omosessualità, dichiarata soltanto pochi anni prima della morte. Da metà degli anni Sessanta in poi, dopo la fine di un amore travolgente con un uomo in Europa, Sacks non ebbe altre relazioni per oltre quarant’anni. Ne aveva 32 quando a New York, dove viveva e lavorava con pazienti anziani e malati cronici, si rivolse a Leonard Shengold, un promettente psicoanalista di Manhattan che gli era stato consigliato da una psichiatra amica di famiglia.

Secondo lei l’omosessualità di Sacks era «un fenomeno molto “secondario”», scrive il New Yorker citando una lettera, e dipendeva dalle sue «oscillanti incertezze su chi amare e da chi essere amati» senza cercare nell’altro solo un’idealizzazione di sé stessi. Un altro amico d’infanzia, prima ancora, gli aveva consigliato un libro dello psicoanalista austriaco Edmund Bergler, teorico della cosiddetta terapia di conversione dell’omosessualità, da lui considerata una malattia curabile con la psicoanalisi.

La terapia di Sacks con Shengold durò quasi cinquant’anni, durante i quali il primo diventò il neurologo più famoso al mondo e il secondo uno dei più stimati psicoanalisti statunitensi. «Credo che l’analisi mi abbia salvato la vita più volte», scrisse poi Sacks nella sua autobiografia In movimento, riferendosi a una grave dipendenza dalle anfetamine che aveva sviluppato dopo essersi trasferito dall’Inghilterra negli Stati Uniti.

A giudicare dagli appunti personali di Sacks, alcuni conflitti psichici che lo avevano portato a rivolgersi a uno psicoanalista rimasero però a lungo irrisolti. In un certo senso li trasferì anzi alla vita dei suoi pazienti: trasmise loro «alcuni dei miei poteri, e anche alcune delle mie fantasie», scrisse nel suo diario. Ci metteva di solito un paio di giorni a riempirne uno intero. «Scrivo versioni simboliche di me stesso», è riportato in un altro passaggio.

Verso la fine degli anni Sessanta Sacks scrisse a un altro suo vecchio amante di avere accettato di sublimare i desideri sessuali nel lavoro. «Sono in grado di trasformare i miei sentimenti erotici in altri tipi di amore: amore per i miei pazienti, per il mio lavoro, per la mia arte, per i miei pensieri». Un certo tormento interiore e la paura di aver proiettato molta parte di sé nei suoi pazienti emergono invece soprattutto dagli appunti degli anni Ottanta, dopo il successo dei suoi primi libri.

In Risvegli, uscito nel 1973 e da cui fu tratto anche un film nel 1990, aveva raccontato la sua esperienza nella cura di circa 80 pazienti sopravvissuti negli anni Venti a un’epidemia di encefalite letargica. Da allora erano rimasti in uno stato comatoso simile a una forma grave e debilitante di Parkinson, e Sacks documentò le loro reazioni, stupefacenti, alla somministrazione sperimentale di un nuovo farmaco (levodopa).

L’interesse di Sacks per le loro storie e il suo modo molto umano di interpretarle e raccontarle lo resero un punto di riferimento per chiunque volesse studiare casi clinici concentrandosi non su nozioni astratte, ma sulle storie individuali. Altri medici avevano rinunciato a curare quei pazienti, mentre Sacks era convinto che potessero tornare a interagire: una consapevolezza rafforzata dal fatto che anche lui, come scrisse sul suo diario, si sentiva come se fosse stato «sepolto vivo».

In altri appunti riportati dal New Yorker si mostrava però anche incerto sull’onestà di quei suoi racconti, perché sentiva di avere dato ai suoi pazienti «poteri (a cominciare dalla capacità di parlare) che non hanno», e di avere aggiunto dettagli che riconosceva come «pure invenzioni». Allo stesso tempo scriveva che alcune esagerazioni non provenivano da suoi desideri superficiali di fama o di attenzione, ma da un’empatia e un impulso «più puro» e «più profondo».

In altri suoi libri successivi Sacks raccontò molti casi di studio spesso incentrati su abilità dei pazienti che erano inimmaginabili per la maggior parte delle persone. Attraverso i dialoghi con lui e le cure si rendevano conto di avere eccezionali doti nascoste per la musica, la pittura, la scrittura e altre attività. A una lettera al fratello Marcus, Sacks allegò una copia del libro L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, uscito nel 1985, e lo definì un libro di «favole». Scrisse che «queste strane narrazioni – per metà resoconti, per metà immaginazioni, per metà scienza, per metà favole, ma con una loro fedeltà – sono ciò che faccio, fondamentalmente, per tenere lontani i MIEI demoni della noia, della solitudine e della disperazione».

Nel corso degli anni, e in particolare dal successo di Risvegli in poi, Sacks diventò via via più scrupoloso e dettagliato nel racconto dei casi da lui osservati, anche se potevano sembrare banali o deludenti sul piano letterario. Sviluppò un interesse sempre più esteso non soltanto per le patologie ma per gli esseri umani in generale, da lui definiti nel suo diario «(piccole) creature piuttosto complesse», che «soffrono, autenticamente, molto», ma sono anche «coraggiosi, intraprendenti, stimolanti».

L’articolo del New Yorker mostra, tra le altre cose, come la scrittura fosse per Sacks non solo un’attività professionale, ma un’attitudine continua e irrinunciabile. Dai suoi appunti emerge una tendenza a dubitare di sé e a interrogarsi che in una certa misura sembra funzionale, non opposta, al tipo di empatia probabilmente a lui richiesta per entrare in contatto con i suoi pazienti. Più che indebolire la credibilità delle osservazioni di Sacks – del resto quasi mai considerate solo sotto l’aspetto scientifico –, l’articolo conferma un’impressione da tempo condivisa da molti lettori e lettrici dei suoi libri, e in parte anche ovvia: le vicende della sua vita ebbero certamente un ruolo nel plasmare sia il suo approccio clinico sia il suo stile letterario.

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